Gigi Proietti è al mare: “Un mare in tempesta, poco estivo, con molte nuvole nere sulla testa e vento sulla faccia” e prepara l’esibizione del 3 settembre alla Versiliana: “Alla festa del Fatto Quotidiano ci divertiremo”. Alle 21,30, con mezzo secolo di palco alle spalle, Proietti sarà ancora al centro della propria Arca. A bordo, in ordine non necessariamente cronologico, le molte maschere di un ragazzo nato il due novembre del 1940: “Alla Versiliana con un orchestra di cinque elementi rivisiterò lo spettacolo che ho portato in giro nell’ultimo anno, Cavalli di Battaglia”.
Cosa vedremo esattamente il 3 settembre?
Porterò in scena alcuni cavalli di battaglia. Personaggi, canzonacce e figure che chi conosce il mio lavoro ritroverà come vecchi amici incontrati in stagioni molto diverse. Il titolo comunque è un compromesso.
In che senso?
Lo spettacolo della Versiliana avrebbe potuto avere anche un altro nome. Con Marco Travaglio, con il quale farò una chiacchierata in pubblico prima dell’inizio, avevamo pensato a Repertuàr, scritto così come lo sente pronunciare. Mi piaceva l’idea che il repertorio del passato si innestasse sulle prese in giro anche lessicali che facevamo negli anni 60.
Che tipo di prese in giro?
All’epoca, a iniziare da Celentano, cantavamo tutti senza sapere le parole delle canzoni. Era tutto un suono all’epoca e facevamo dei grammelot ante litteram. Francese, inglese, spagnolo maccheronico. Potevamo cantà in tutte le lingue del mondo.
Lei trasformò Ne me quitte Pas di Jacques Brel in Nun me rompe er ca.
La rifarò anche alla Versiliana, ma nonostante mi abbiano dato del cinico, Nun me rompe er ca non era affatto la parodia della canzone di Brel. Prendevo in giro un certo tipo di cantante romanesco alle prese con il francese e in fondo, come sempre, prendevo in giro me stesso. Per stare su un palco l’autoironia è fondamentale.
Che senso ha il recupero del passato, il repertuàr, per lei?
Se una rappresentazione, un personaggio o un tempo comico ha funzionato per tanto tempo non è detto che non funzioni ancora. Se una cosa piace, non c’è bisogno di seppellirla. Puoi rielaborarla, aggiornarla o attualizzarla, ma il nucleo resta. La dicotomia di ieri ancora me la ricordo.
Quale dicotomia?
Quella tra moderno e contemporaneo: “Se è moderno non può essere contemporaneo” dicevano gli intellettuali.
E lei che rispondeva?
Ma io intellettuale non sono mai stato, men che mai intellettuale avanguardista. L’avanguardia era tremenda. C’erano piccoli tribunali che decidevano quanto si dovesse studiare o documentarsi per poter essere considerati attori a tutto tondo.
E lei non ubbidiva alle regole?
Molti anni fa avevo un po’ di puzza sotto il naso persino io: “Io faccio lo spettacolo, poi se non piace al pubblico chi se ne frega. Un atteggiamento sbagliato, abbandonato in fretta, poi molto diffuso. Ho fatto sempre spettacoli per coinvolgere, per portare in sala chi fino al giorno prima davanti alla sola ipotesi sarebbe fuggito a gambe levate.
Quanto diffuso?
Diffuso nella vasta schiera degli artisti ministeriali, degli artisti per decreto legge. Quando l’avanguardia si trasformò in conformismo, quelli veramente spiritosi seppero come rispondere. Uno che sapeva infilzare come nessuno la sicumera e il trombonismo era Gassman.
Cosa diceva Gassman?
Ascoltava paziente i verbosi discorsi sulla necessità del teatro di ricerca, annuiva e poi finiti gli slogan diceva soltanto: “Non vi affannate troppo, almeno per oggi sospendete le ricerche”.
Aveva ragione lui?
Assolutamente. Per me il teatro ha rappresentato uno spazio per coinvolgere e avvicinare persone che del teatro diffidavano, nulla sapevano e neanche avrebbero voluto saperne. Conquistare quel pubblico è stata una grande soddisfazione.
Ridere di questi tempi è un azzardo necessario?
Non ho mai legato la necessità del sorriso alla cronaca quotidiana, né mai pensato che a tempi drammatici corrisponda la cupezza. “Non è il momento di ridere”. Sa da quanto lo sento dire? Da quando sono nato. Ridiamo a prescindere e a volte proviamo a spiazzare. Al Globe quest’anno ci abbiamo provato e ci siamo riusciti mettendo in scena uno spettacolo su Edmund Keane. Era drammaticissimo, ma la gente invece di spaventarsi è accorsa lo stesso.
E il dato la consola?
Certo. Prendiamo Shakespeare. Amleto è Amleto. È di una grandezza e di una maestosità indiscutibili. È un capolavoro. E non è che un capolavoro non lo reciti perché nun se ride. Sa cosa mi ha stupito?
Cosa?
Il fatto che molte persone abbiano voglia di conoscere la sua opera. Non la rilettura più o meno illuminata, che pure tutti hanno ovviamente il diritto di fare, ma proprio i suoi testi, le sue parole, il suo lascito.
Quindi riempiono i teatri per un autore scomparso da quattrocento anni?
Esattamente. Pè vedè se un personaggio muore o non muore devi assistere alla rappresentazione. Ed è lì, nello spettacolo collettivo, che il teatro assolve alla sua vera funzione e al suo compito.
In cosa consiste secondo lei il compito del teatro?
Nella sua ritualità laica. Nella sua capacità di riunire le persone intorno a un palco. Nel suo essere un collante. Il teatro sarà anche la Cenerentola delle arti espressive, ma questa unicità quasi miracolosa, tramandata da secoli, ancora la possiede.
Non c’è altro?
C’è molto altro. C’è un mondo. Ma forse non c’è niente di rivoluzionario. “Alcuni spettacoli teatrali hanno scatenato le rivoluzioni” dicono.
Non è vero?
È semplicemente falso. Le rivoluzioni si fanno con il fucile. Un’altra maniera non esiste.