Sbagliano Beppe Grillo e Virginia Raggi a cantare vittoria per la conclusione dell’indagine sulla sindaca di Roma. Il falso ideologico, per cui i pm chiedono al Gup di rinviarla a giudizio, non è un reato bagatellare, tantomeno per un’esponente del Movimento 5Stelle che fa della trasparenza una bandiera. Si può capire invece il sollievo di Raggi e M5S per la caduta degli altri reati, ben più gravi, che le venivano addossati in partenza. Senza contare quelli che si erano inventati i giornaloni (corruzione, riciclaggio, tesoretti occulti, voti comprati per “scalare” il M5S e via vaneggiando sulle polizze di Salvatore Romeo, fin da subito definite dai pm “penalmente irrilevanti”), per dipingerla come una corrotta matricolata. All’inizio delle indagini, era accusata di cinque reati: abuso d’ufficio per la nomina di Romeo a capo-segreteria; abuso d’ufficio per la nomina di Carla Raineri a capo di gabinetto; rivelazione di segreto sul presunto dossier contro Marcello De Vito, suo rivale alle Comunarie; abuso d’ufficio e falso per la nomina di Renato Marra a capo dell’ufficio Turismo del Comune. Dei primi quattro è stata chiesta l’archiviazione ed è rimasto l’ultimo: il meno infamante, perché non riguarda abusi di potere o favoritismi, né tantomeno storie di soldi e mazzette fabbricate ad arte dai giornaloni. Riguarda una dichiarazione resa dalla sindaca all’Anticorruzione comunale nel dicembre 2016 sulla promozione del dirigente dei vigili Renato Marra, fratello del capo del Personale Raffaele.
Quest’ultimo – secondo la sindaca – non entrò in conflitto d’interessi perché ebbe un ruolo “di mera pedissequa esecuzione delle determinazioni da me assunte, senza alcuna partecipazione alle fasi istruttorie, di valutazione e decisionali” e “di mero carattere compilativo”, anche perché l’art 38 del Regolamento comunale assegna quelle nomine all’esclusiva discrezionalità del sindaco. E infatti fu la Raggi, su richiesta dell’assessore al Commercio Adriano Meloni, a decidere. La Procura, sulle prime, riteneva che il conflitto d’interessi (e dunque l’abuso d’ufficio) ci fosse: dalle chat risulta che Marra si attivò con l’assessore e il delegato della sindaca per spingere il fratello. Il che convinse i pm che la Raggi sapesse tutto e avesse mentito all’Anticorruzione per coprire l’abuso di Marra. Ora però l’abuso rimane solo per Marra e cade per la Raggi: per i pm, la sindaca nella nomina non commise illeciti, ignorando i conflitti d’interessi in cui si era cacciato Marra alle sue spalle. Infatti chiedono di archiviarle l’abuso e processarla “solo” per falso (la presunta bugia all’Anticorruzione).
Falso peraltro depurato dell’iniziale aggravante di aver voluto coprire l’abuso (che non c’è più). Ora starà a loro dimostrare al Gup l’intenzione di commettere il reato (il dolo): cioè che la Raggi consapevolmente mentì sul ruolo di Raffaele Marra. E non sarà facile. Se infatti i pm sostengono che la sindaca non sapeva che Marra agiva in conflitto d’interessi e perciò non fu sua complice nel presunto abuso, come potranno dimostrare che raccontò scientemente frottole all’Anticorruzione, negando le pressioni di Marra non su di lei, ma sui suoi collaboratori e sul suo assessore (che fra l’altro ha confermato ai pm di avere chiesto lui la nomina di Renato Marra)? E perché mai l’avrebbe fatto? Il processo è aperto a tutti gli esiti, perché si gioca sul filo delle interpretazioni e delle consapevolezze: nemmeno le copiose chat di Marra indicano chiaramente chi abbia detto cosa e a chi. Manca la “pistola fumante”, cioè la prova che la sindaca sapesse che Marra si attivava (con altri) per sponsorizzare il fratello. Anzi, potrebbe addirittura esistere qualche prova del contrario: come l’sms inviato dalla Raggi a Raffaele per chiedere conto di quanto scrivevano i giornali e non le era stato comunicato, e cioè che nel nuovo incarico il fratello Renato avrebbe avuto un aumento di stipendio che lei non aveva mai avallato. Il classico caso di processo indiziario, dove solo il giudice, cucendo frasi e fatti col filo della logica, dovrà riempire i buchi probatori dell’accusa. Solo a fine processo, con la sentenza definitiva, si potrà sapere se la sindaca mentì sapendo di mentire, o più semplicemente disse quanto le risultava allora di una delle centinaia di nomine passate sul suo tavolo.
Al momento, dunque, ancora nessun fatto sicuro. E nulla di infamante che imponga sanzioni disciplinari o dimissioni (diversamente dal sindaco M5S di Bagheria, che dovrebbe dimettersi solo per quel che ha detto nelle intercettazioni e nelle dichiarazioni di autodifesa). Naturalmente ieri la notizia della Raggi imputata per falso ideologico ha avuto, nei tg e sui siti dei giornali, cento volte più risalto di quella del sindaco Pd di Milano Beppe Sala imputato la settimana scorsa per falso materiale e ideologico. Eppure lì il reato è un po’ più grave e i fatti, di cui i giudici dovranno valutare la rilevanza penale, sono già assodati perché stampati nero su bianco: i documenti del più grande appalto di Expo (quello da 272 milioni per la “piastra” dei padiglioni, ritenuto truccato dagli inquirenti), furono indubitabilmente retrodatati di 13 giorni dall’allora Ad e commissario straordinario, per sostituire in corsa due commissari incompatibili e sanare ex post l’atto illegittimo. Ieri, al presunto falso della Raggi, il Tg1 delle 13.30 ha dedicato un titolo di apertura e un servizio di 2 minuti e 24 secondi. Otto giorni fa, sul presunto falso di Sala, zero tituli, ma solo una notizietta da studio di 21 secondi. Eppure non risulta che il reato falso sia stato depenalizzato a Milano ed equiparato all’omicidio a Roma. Dunque, per i presunti falsi di Raggi e Sala bisogna attendere le sentenze. Per i falsi del Tg1, invece, basta accendere la tv. E vomitare.