La riapertura di Eurallumina a Portovesme, fabbrica sarda chiusa dall’ormai lontano 2009, e l’ampliamento dell’annessa discarica di fanghi rossi, dipenderanno da chi vincerà un braccio di ferro ormai sconfinato nel cortocircuito istituzionale. Da un lato, c’è chi sposa la causa industriale: non solo chi ha messo il capitale – la russa Rusal, impegnata a far ripartire la produzione – ma anche i sindacati, il ministero dello Sviluppo, l’amministrazione regionale sarda e diversi ambienti del Partito democratico. Si batte su un tema cruciale per la povera regione del Sulcis, quello occupazionale, e in questo caso sono in ballo 357 posti più l’indotto degli appalti. Dall’altro, però, ci sono gli ecologisti che vogliono difendere un’area martoriata da decenni di inquinamento.
In mezzo a questa classica contesa tra ambiente e lavoro, un funzionario del ministero dei Beni Culturali che fa il suo lavoro di tecnico e dà parere negativo all’opera per via dei siti di interesse paesaggistico presenti a due passi. E così, queste 24 ore – che ci separano dalla prossima conferenza dei servizi in Regione, prevista per domani – pongono in cima all’agenda politica una questione molto complicata che richiederà una chiara presa di posizione del ministero dei Beni culturali.
Facciamo un passo indietro. Quando parliamo di Eurallumina ci riferiamo a una fabbrica che dal 1968 al 2009 dalla bauxite produce appunto allumina, materiale che poi passa alla vicina – e altrettanto famosa – Alcoa, la quale tira fuori il prodotto finito. La crisi economica globale non risparmia però questo settore industriale. Il risultato è una chiusura che lascia pure in eredità quello che per i magistrati di Cagliari sarebbe un disastro ambientale. Più la disoccupazione, si intende. Negli ultimi anni, però, Rusal mette sul piatto 200 milioni di euro per far ripartire la fabbrica. Per chi in questo vede un’ancora di salvezza per una comunità afflitta da un disagio sociale, è una festa. Certo, c’è chi non dimentica che c’è pure l’emergenza ambientale.
Tra gli interventi, infatti, è previsto anche l’ampliamento del bacino di fanghi rossi, che arriverebbe a 46 metri sul livello del mare. La Regione Sardegna, comunque, sostiene il rilancio industriale e così si passa alle valutazioni di impatto ambientale. Tale procedura vede tra i soggetti competenti a esprimere il parere anche il soprintendente dei Beni culturali Fausto Martino, che si pronuncia in senso negativo. Qual è il problema? Che il sito di stoccaggio dei fanghi è troppo vicino a zone di interesse come la Torre e la Tonnara di Portoscuso, il Forte di Santa Teresa e la chiesa campestre di Flumentepido. Il documento fa arrabbiare un po’ tutti: la giunta regionale, che lo contesta sul piano tecnico, le rappresentanze sindacali e pure i vertici delle sigle di categoria Filctem, Femca e Uiltec, che scrivono al funzionario. Secondo questi ultimi, tra i monumenti elencati non c’è alcuna intervisibilità. Martino, tuttavia, spiega che il problema non è la possibilità di vedere l’ecomostro da una torre o da una chiesa, ma il fatto che comunque tale presenza venga percepita. “È un concetto nuovo di paesaggio – spiega l’architetto – che si basa sulla percezione dinamica dello stesso”. La tensione sale, al punto che da qualche giorno le forze dell’ordine sono costrette a sorvegliare la sede locale della Soprintendenza.
Il dossier finisce negli uffici del ministero dei Beni culturali, sollecitato a intervenire da tre senatori locali del Pd: Silvio Lai, Ignazio Angiuni e Giuseppe Cucca. Chiedono, in pratica, che non si intralci un progetto così impattante sul piano occupazionale in una zona così delicata. Questa mattina il sottosegretario Ilaria Borletti Buitoni riceverà il carteggio e lo valuterà. “Per il momento non posso esprimermi – spiega al Fatto – abbiamo certamente fiducia nel lavoro dei nostri uffici periferici. È chiaro che, viste le complesse circostanze, questa vicenda sarà trattata in senso ampio, tenendo presente ogni suo aspetto”. La posizione di Borletti è quella di chi sostiene il lavoro del soprintendente, ma allo stesso tempo sa che la volontà politica è quella di non privare il Sulcis di centinaia di posti di lavoro.
La vicenda apre anche dubbi di carattere amministrativo. Molto dipenderà da quale legge applicare a questo procedimento. Il decreto Madia, successivo all’avvio di questa pratica, contempla il parere espresso ai sensi del codice dei Beni culturali. La legge preesistente, invece, limita l’intervento del Mibact nella cornice disegnata dal testo unico sull’ambiente. Puri tecnicismi, che però influiranno sul peso specifico che il parere negativo di Martino assumerà all’interno della vicenda.