In stallo dal 2014, il disegno di legge sulla tortura, reato che l’Italia ancora non ha introdotto nel suo ordinamento, nonostante abbia firmato le relative convenzioni oltre trent’anni fa, da ieri è in votazione al Senato. In aula è approdato un testo modificato rispetto a quello della Camera, “se possibile, un testo peggiorativo rispetto a quello di Montecitorio”. È categorico Felice Casson, senatore di Mdp, che abbiamo sentito dopo il suo intervento a Palazzo Madama, dove ha presentato una sua proposta, bocciata dalla maggioranza.
Il suo obiettivo, come quello di Corradino Mineo e degli altri senatori che l’hanno firmata, era almeno di arginare i danni e non far passare una modifica strategica presentata dai relatori Nico D’Ascola (alfaniano di Ap) ed Enrico Buemi (socialista del Gruppo Misto) “per rendere una corsa a ostacoli la condanna per il reato di tortura”, ci dice senza fronzoli diplomatici, Felice Casson.
La questione è molto tecnica, ma è sulle singole parole che si gioca la vera introduzione del reato di tortura in Italia oppure la sua comparsa di pura facciata, come sembra stia per accadere oggi. Recita l’emendamento, approvato, dei relatori: il reato di tortura si configura “se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la persona”. Ecco, la parola chiave: “Più condotte”. Casson ci spiega che avrebbe voluto venisse trasformata in “una o più condotte” perché “altrimenti non sarà quasi mai punibile. Fa il paio con il testo della commissione Giustizia del Senato che prevedeva violenze reiterate e poi quel reiterate è sparito”. Insomma, voler introdurre che si è punibili solo se siano state commesse più condotte, prosegue Casson, “è una ingiustificata modifica per impedire che questo reato diventi qualcosa di concreto”.
Nel ddl si fa riferimento anche a “verificabile trauma psichico”, ma – spiega il senatore, che è stato a lungo giudice istruttore e pm – “è un elemento praticamente impossibile da riscontrare a livello processuale”. Dal testo approdato in aula sparisce pure il riferimento alle confessioni estorte, alle pressioni, alla tortura per motivi di discriminazione: “Siamo di fronte – conclude amaro Casson – a un completo aggiramento delle convenzioni internazionali, in particolare quella Onu del 1952, quella firmata a New York nel 1984 e la convenzione di Strasburgo del 1987”.
Al Senato, poi, è stato presentato un secondo emendamento “politico” D’Ascola-Buemi in cui si specifica (anche se il codice lo prevede già) che non si può parlare di tortura nel caso di “sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative dei diritti”. “Se magari l’agente – ha spiegato Buemi – rompe il braccio a uno mentre lo arresta, non si può far rientrare nella tortura”. Nelle varie letture che ci sono state, il reato – per un costante compromesso al ribasso – è passato da “proprio” a “comune”: contrariamente a quanto stabilito dalle convenzioni internazionali, il fatto che possa essere commesso da un agente delle forze di polizia diventa solo un’aggravante. In più, sono state ridotte le condanne: il poliziotto che ha commesso una tortura rischia da 5 a 12 anni, mentre nel testo uscito dalla Camera la pena era dai 5 ai 15 anni. Per cittadini comuni, invece, la pena va dai 4 ai 10 anni.
Il disegno di legge ha avuto un iter travagliato per le barricate della destra e dei centristi che hanno sempre voluto un testo annacquato per “proteggere”, a modo loro, le forze di polizia anche se – ha detto Casson in aula – “non ne hanno bisogno. Non è contro di loro, ma contro chi commette violenze”. Fu il senatore del Pd Luigi Manconi a presentare un testo, approvato il 5 marzo 2014, ma ammorbidito, tanto da essere criticato dallo stesso senatore. Alla Camera, modificato, fu approvato il 9 aprile 2015, dopo la condanna di Strasburgo nei confronti dell’Italia per il comportamento delle forze di polizia durante l’irruzione alla scuola Diaz di Genova, al G8 del 2001, quando ci fu una “macelleria messicana”. Oggi Amnesty international è definitiva: “Testo impresentabile”.