La vicenda Qatar è teatro. Finzione. Ipocrisia. È fumo negli occhi. Anzi, polvere. Come quella che solleva lo Shamal, il vento arido del deserto che proviene dall’Iraq e avvolge la penisola qatarina: i grattacieli ipermoderni di Doha spuntano dalla nuvola di polvere, sfidano la furia della natura, loro che sono simboli di modernità, di futuro. Di potere e soldi. Quelli del Qatar sono tantissimi: il reddito pro capite è il più elevato del mondo: fino a 182mila dollari; i capitali del petrolio e del gas (terze riserve più vaste del globo) sono stati oculatamente investiti in Occidente dalla famiglia regnante, che comanda le tribù del Qatar dal 1825 e che ha nell’attuale emiro, lo sceicco Tamim bin Hamad al-Thani, 37 anni (capo del Paese dal 2013, dopo l’abdicazione del padre), un leader accorto ed inflessibile.
Una politica, quella del Qatar, concreta e lungimirante. Il poderoso fondo sovrano Qatar Investment Authority (330 miliardi di dollari) istituito nel 2005 ha acquisito partecipazioni di rilievo in settori strategici europei dalla tecnologia al turismo, dall’industria della difesa, a quella dell’energia e dell’auto (Volkswagen). E poi banche, Virgin Megastore, i grattacieli di Porta Nuova a Milano, la maison Valentino, gli Harrods di Londra, squadre di calcio (il Psg di Parigi e la sponsorizzazione del Barcellona). Anche se al-Thani non è certo un grande democratico, per usare un eufemismo: la sua è una petromonarchia assoluta, animata da un puritanesimo religioso quasi fanatico. Ma la famiglia al-Thani è stata abile seguendo il corso della storia, e non del medioevo. Risultato: un regime ambiguo e dalle mille contraddizioni. Amico dell’Occidente (troppi gli interessi finanziari) ma anche non ostile allo jihadismo islamico, in particolare dei Fratelli Musulmani.
Questo “fiancheggiare” l’estremismo è stato il pretesto per scatenare una sorta di santa alleanza del mondo arabo contro l’eversivo Qatar, reo di non ossequiare il disegno egemonico di Riad. Dal 5 giugno, infatti, il Qatar si trova semi isolato perché l’Arabia Saudita ha imposto l’embargo, in accordo con gli Emirati Arabi Uniti, il piccolo Bahrein, l’Egitto (poi si sono accodati lo Yemen, la Giordania, la Libia, le Maldive, le Comore e la Mauritania). Sono stati ritirati gli ambasciatori ed è stata proclamata la sospensione di ogni comunicazione.
L’accusa? Oltre ad aiutare il terrorismo, Doha è alleato di Teheran. Dunque, “colpevole” di destabilizzare la regione. Tutto è precipitato dopo la visita di Trump in Arabia Saudita. Che ci sia quindi lo zampino americano? E qui torniamo allo Shamal. Al vento che gonfia le nuvole di polvere anche in direzione di Camp As Sayliyah, l’immensa base militare Usa che al tempo della guerra contro Saddam Hussein ospitava il Cent-Com, il comando operativo, e che oggi è il cuore strategico delle retrovie statunitensi in Medio Oriente. L’Arabia Saudita è a 110 chilometri di distanza, a 25 c’è al-Udeid, la base aerea Usa più grande della regione mediorientale, con 120 cacciabombardieri F-16.
Un prezioso avamposto: impensabile ipotizzare un trasloco tra le ingenti risorse impiegate per allestirla (è stata completata nel 2000) e i militari Usa (10mila) presenti. Non a caso, in questa vicenda gli Stati Uniti inviano segnali contraddittori. Mentre Trump, il 6 giugno, rilancia le accuse di Riad, il 14 giugno il Pentagono annuncia la conclusione di un contratto per una maxicommessa d’armi (e aerei: 36 caccia F-15, per 12 miliardi di dollari). Il 20 giugno è il Dipartimento di Stato che si mostra preoccupato: i Paesi arabi non hanno prove delle loro accuse. La popolazione sta con l’emiro, difende il benessere che gli viene garantito: trasporti e sanità gratuiti, scuole di altissimo livello, niente tasse. L’embargo alimentare è stato aggirato grazie all’aiuto dell’Iran (che invia ogni giorno tre navi cariche di derrate) e dalla Turchia. Persino gli americani, a loro modo, si sono fatti beffe dell’embargo: il 380th Expeditionery Force Support Squadron trasporta il latte per le guarnigioni. La gente boicotta i prodotti arabi e degli Emirati, mentre un imprenditore ha avuto l’idea di comprare 4mila vacche Holstein. Il pollo arriva da Ankara, le banane dall’India. “Il Qatar ha un’economia molto forte”, ha dichiarato il ministro delle Finanze Ali Shareef Al-Emadi il 16 giugno, ricordando che la Banca centrale dispone di 34 miliardi di dollari di riserva, “se noi perdiamo un dollaro, lo perdono pure loro”, ha rincarato, alludendo a sauditi ed emirati.
Business as usual, il Qatar non è Cuba. Oggi, 3 luglio, dovrebbe scadere l’ultimatum dei Paesi del Golfo, ma il Qatar l’ha respinto. Per forza. Oltre a chiedere di rompere con l’Iran e di rinunciare alla protezione militare turca, Riad e alleati chiedono la chiusura di Al-Jazeera. Il vero obiettivo. La tv satellitare panaraba (50 milioni di telespettatori) creata nel novembre del 1996, è stata un’astuzia geniale: il Qatar si è dotato di un prodigioso strumento d’influenza mediatica internazionale. Un canale d’informazione in bilico tra libertà di stampa (modello Cnn) e propaganda politica. Svelava gli altarini del mondo musulmano, appoggiava tra l’altro le “primavere arabe”, dando voce agli oppositori in esilio, e anche alle cronache del terrorismo, capace di ottenere e diffondere i video messaggi di Osama bin Laden. Oscurarla farebbe comodo a chi ha paura dell’informazione, anche se non sempre del tutto corretta.