Per capire la battaglia sul destino delle Assicurazioni Generali – prima compagnia italiana e terza in Europa dopo la tedesca Allianz e la francese Axa – bisognerebbe leggere la Bibbia. Non tutta, bastano poche righe (I re, 3, 16-29). Due prostitute si contendono un neonato. La prima accusa la seconda di averglielo sottratto nottetempo dopo che il suo era morto. Il re Salomone ordina ai suoi uomini: “Prendete una spada, tagliate in due il bambino e datene una metà a ciascuna”. La prima prostituta dice: “Non uccidetelo e datelo a lei”. La seconda risponde: “Non sia né mio né tuo: dividetelo in due!”. Il re dice: “Date alla prima il bambino vivo. Quella è sua madre”.
Tutto sommato per lui non fu difficile decidere salomonicamente e diventare un proverbio. Se tornasse in vita e gli chiedessero un giudizio altrettanto saggio sul caso Generali rinuncerebbe al mandato. Non c’è una sola delle prostitute in gioco che non invochi di tagliare le Generali in due, in quattro, in otto, di farle a spezzatino, al forno, brasate o alla cacciatora. Tutto pur di non smettere di comandare. Tra cedere ad altri, cioè al mitico mercato con cui le stesse prostitute si sciacquano la bocca a ogni convegno, una compagnia di assicurazioni più grande e sana e mantenere il controllo su una robetta decadente, tutti i duellanti scelgono la seconda ipotesi.
Le Generali sono da anni un gigante malato. Tutti lo sanno, tutti (in pubblico) lo negano. Lo ha detto chiaramente l’ex presidente Cesare Geronzi, cacciato nel 2011 da Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca che con il 13 per cento controlla di fatto la compagnia di Trieste. Nel suo libro intervista a Massimo Mucchetti (Confiteor, Feltrinelli, 2012) ha detto che Mediobanca ha imposto un freno alle Generali, impedendo ai manager di chiedere nuovi capitali ai soci, perché gli azionisti, e tra loro la stessa banca fondata da Enrico Cuccia, non avevano risorse sufficienti. Non sottoscrivendo avrebbero visto diluite le loro quote e quindi il loro potere. Potere di fare che cosa? Di “assicurarsi la presa sulle mammelle migliori della speciale mucca chiamata Generali”. L’accusa è precisa. Gli azionisti e i consiglieri d’amministrazione, scelti quasi tutti da Mediobanca, secondo Geronzi sono dediti principalmente a farsi gli affari loro a spese delle (sempre meno) ricche Generali.
Per capire l’ennesima partita tra capitalisti senza capitali, che questa volta si gioca sulla pelle dell’ultima grande impresa privata rimasta italiana insieme alla banca Intesa Sanpaolo, bisogna ragionare in euro, che è l’unico modo di sottrarsi alle supercazzole dei protagonisti.
Lo scenario è noto. Nagel paventa la scalata di Intesa Sanpaolo alle Generali e fa comprare alla compagnia il 3 per cento di Intesa per bloccarne la crescita nell’azionariato ai sensi dell’art. 121 del Tuf, Testo unico della finanza, che vieta la partecipazioni incrociate. Intesa in realtà si sta muovendo, sollecitata anche dal governo, per impedire ciò di cui accusa Nagel, cioè di preparare la svendita di Generali ai francesi di Axa. Tra Nagel e il numero uno di Intesa Carlo Messina si rinnova lo scontro di pochi mesi fa su Rcs, vinto da Messina che ha aiutato Urbano Cairo a sfilare il controllo del Corriere della Sera a Nagel e alleati.
Tutto questo avviene nelle segrete stanze, con i protagonisti che trattano i giornalisti, con biblica ironia, come prostitute. In privato danno loro notizie, non sempre vere, in pubblico li irridono. Il presidente di Intesa Gian Maria Gros-Pietro ieri ha detto ai cronisti che lo interpellavano sul prossimo cda della banca: “Sarà sui conti, non sulle cose che interessano a voi. Non ce ne stiamo occupando noi”. Un paio d’ore dopo lo ha smentito un comunicato della sua banca: “Stiamo valutando”, forse senza dirlo a Gros-Pietro. Si parla di un’offerta pubblica mista di acquisto e di scambio per il 60 per cento di Generali, quota necessaria a superare il blocco dell’articolo 121.
Allianz è la prima compagnia europea. Vale 70 miliardi in Borsa e raccoglie premi (l’importo pagato dai clienti per le polizze danni e vita) per 115 miliardi. Axa vale 55 miliardi e raccoglie premi per 87. Generali raccoglie premi per 70 miliardi e vale in Borsa 24 miliardi. Il mercato non crede al futuro delle Generali.
La compagnia, come diceva già anni fa Geronzi, è sottocapitalizzata. Le avversarie crescono investendo, le Generali non hanno capitali da investire sul futuro.
Basta un’occhiata al bilancio. Ha un patrimonio di 500 miliardi che si appoggia su un patrimonio netto (capitale più riserve) di soli 25. È come un tir col motore di una 500. Nel 2007, ultimo anno prima della crisi, Generali ha portato a casa 2,11 euro di utile netto per azione. Nel 2015 solo 1,30 euro. Nell’ultimo bilancio i premi raccolti (68,5 miliardi) sono stati inferiori ai danni pagati (69,1 miliardi). Generali ha fatto 2,3 miliardi di utile netto (un terzo in meno del 2007) grazie agli immobili e alla finanza.
L’amministratore delegato Philippe Donnet vuole risolvere la cosa “dimagrendo” la compagnia. È andato a offrire in giro Generali Francia e Generali Germania, che sommano 27 dei 70 miliardi di premi del gruppo, più dei 22 raccolti in Italia. Il direttore generale Alberto Minali lo ha accusato di voler solo ridurre il boccone per preparare il terreno ad Axa, la compagnia dove è cresciuto professionalmente. Sarà cacciato questa mattina dopo un voto ad hoc del consiglio d’amministrazione.