Mafia Capitale dimezzata. Perché il tribunale di Roma ha inflitto a Carminati, Buzzi, e soci la metà delle pene chieste dall’accusa. E poi perché quelle due parole (che esprimevano l’essenza stessa del processo) dopo la decisione del Tribunale si sono ridotte ad una soltanto. “Capitale” rimane perché Roma è il teatro delle attività criminali contestate. Ma viene cancellata la parola “mafia”. Nel senso che il tribunale ha escluso l’associazione mafiosa e l’aggravante di mafia.
Ovviamente la sentenza va rispettata e la sua motivazione andrà letta con attenzione. Ci stanno peraltro alcune considerazioni di carattere generale che possono aiutare ad inquadrare il problema. Irrigidirsi negli schemi tradizionali può essere fuorviante. L’impegno continuo della magistratura e delle forze dell’ordine racconta quotidianamente nuovi intrecci e nuove vocazioni delle mafie, in particolare le loro capacità imprenditoriali e la lungimiranza nell’individuare nuovi campi di attività e nuovi affari cui dedicarsi.
Via via le mafie abbandonano l’ambito “militare” per vestire – come si usa dire – il “doppio petto” e il “colletto bianco”. Allo scopo di cogliere e meglio gestire le opportunità e i vantaggi offerti dallo specifico ambiente in cui operano. Per tessere in maniera più efficace e produttiva, dal punto di vista economico, la rete di interessi che è il loro scopo principale. Un contesto nel quale sono decisivi i rapporti con pezzi della politica, dell’amministrazione e dell’imprenditoria. La “zona grigia”. Senza di cui non di mafia si tratterà, ma di “semplice” gangsterismo, cioè criminalità di strada.
Viceversa, se queste relazioni esterne sono provate, l’associazione mafiosa diviene più facilmente configurabile. Ora, nello specifico caso di “Mafia (ex) Capitale”, il principale imputato Massimo Carminati, stando a una intercettazione, aveva descritto l’attività propria e dei suoi sodali parlando di un “mondo di mezzo”, dove si incontrano “quello di sopra” (personaggi eccellenti) e “quello di sotto” (criminali “comuni”). Parole che traducono in linguaggio corrente, a suo modo persino suggestivo, fior di studi e ricerche dei maggiori esperti di mafie: quelli che individuano appunto, nei rapporti torbidi con pezzi della legalità, il Dna delle mafie.
La filosofia di Carminati (sempre stando ad una intercettazione) era tenere pronti vari progetti da sottoporre a coloro – politici o amministratori – cui spettava decidere. Chiedendo “che te serve?; come posso guadagnare?; con l’avvertimento finale: “te lo faccio io” quel lavoro, ma “se poi vengo a sapere che te lo fa un altro, è ’na cosa sgradevole”. Una evocazione delle possibili conseguenze nel caso di una possibile mancata intesa.
Per situazioni del genere, una sentenza della Cassazione del 2015 ha stabilito questo principio: mafia è anche quel sodalizio criminale che adopera il metodo mafioso “in forma silente, senza ricorrere e forme eclatanti, avvalendosi di quella forma di intimidazione, per certi aspetti ancora più temibile, che deriva dal non detto, dall’accennato, dal sussurrato”. Se si aggiunge che nel processo contro Carminati & C. sono stati condannati a pene consistenti vari uomini di destra come di sinistra, sarà davvero interessante studiare la motivazione del tribunale di Roma.
Voglio infine precisare come occorra seguire i percorsi, le evoluzioni, i collegamenti, le modalità e le capacità di adattamento del sistema criminale nonché dei mondi ad esso volta a volta contigui ma funzionali. Come si deve prendere atto della progressiva trasformazione non solo del modus operandi, ma – per certi profili – della stessa identità delle organizzazioni mafiose.
Valutando conseguentemente l’opportunità di adeguare i nostri modelli di lettura dei fenomeni criminali, allo scopo di migliorare in chiave preventiva e repressiva il contrasto delle mafie in ogni loro articolazione. Senza che nel nostro subconscio si annidino stereotipi sbagliati. Tipo quello che per essere mafiosi bisogna essere del Sud.