Per 15 anni ha seguito Enrico Berlinguer in tutta Italia e anche all’estero. La sua ombra e la sua protezione. Era Alberto Menichelli, autista e scorta del segretario del Partito comunista italiano. Menichelli è morto per un cancro venerdì notte a Roma, all’età di 88 anni. Così come lui, negli anni più duri, aveva protetto le sue figlie, loro hanno cercato di proteggere lui nel periodo della malattia. “Non ha mai saputo nulla fino alla fine perché volevamo preservarlo per non torgliergli l’entusiasmo”, racconta la figlia Laura.
Suo padre era ancora molto appassionato di politica?
Sì, era un appassionato, era una persona brillante e intelligente fino all’ultimo. Aveva una grande forza, ha affrontato i dolori con grande dignità. Amava il Pci in maniera incredibile, era la sua famiglia, era molto legato a coloro che ne hanno fatto parte e loro a lui.
È ricordato come l’angelo custode di Enrico Berlinguer.
Ne era orgoglioso. Era innamorato di lui. Anche ieri sera a cena, prima che la situazione precipitasse, ne parlava: “Non so chi ringraziare per aver avuto questa fortuna. Lavorare al Partito ed essere l’autista di Berlinguer”.
Dopo la morte del segretario cos’ha fatto?
Ha continuato per alcuni anni a lavorare col Pci, ma è rimasto poco perché non si ritrovava più, neanche col compito che gli era stato attribuito, impiegato nella sezione esteri, senza il contatto con le persone. Poi si è dato da fare con l’associazione Enrico Berlinguer al Quadraro (un quartiere di Roma, ndr) di cui era presidente. Fanno molte attività, non di politica, ma più sociali, basate sugli ideali di Berlinguer.
Si interessava alla politica attuale?
Assolutamente no.
Neanche con l’uscita di Pier Luigi Bersani dal Pd per rifondare il centrosinistra?
No. Consideri che per mio padre la politica è morta con Berlinguer. Poi lui se ne interessava, leggeva tutti i giorni il Fatto Quotidiano. Due giorni fa sono andata io a comprarglielo perché ormai stava sulla sedia a rotelle. Però con la politica attuale no, per lui la politica è morale e solidarietà, valori che ha trasmesso a me e mia sorella e non trovava.
Suo padre ha cominciato a lavorare con Berlinguer nel 1969. Col suo lavoro non doveva essere molto presente.
Quando io sono nata lui non c’era, è arrivato due giorni dopo. Aveva un lavoro difficile, molto pericoloso che io ho probabilmente capito dopo perché per preservarci ci coinvolgeva, ma sempre molto di riflesso. Non era un impiegato, faceva la scorta di Berlinguer e rischiava la vita tutti i giorni. Da piccola mi è mancato molto, ma sono strafelice di quanto ha vissuto, delle esperienze che ha fatto e dell’appagamento. Poi c’era il Pci che per noi era come una famiglia e lo sono tutt’oggi, come le figlie di Berlinguer, degli altri compagni e della scorta.
Vi ha mai spiegato i rischi che correva?
Mai direttamente. Era molto riservato, era il suo modo di proteggerci. Erano rischi veri, tangibili. A volte anche noi venivamo scortate, ma non lo coglievamo in pieno: bisognava controllare chi ci avvicinava, controllare le auto ferme sotto casa, non rivelare mai cosa faceva papà. Cose che uno capisce da adulto.
C’era un ricordo particolare che vi raccontava?
Potrei citarne moltissimi. Lui a ogni racconto si illuminava.
La fiaschetta di liquore da cui Berlinguer beveva un sorso per non farsi spaventare dalle folle dei comizi l’avete ancora?
Sì, e la conserveremo a lungo. È uno dei ricordi più cari.