Se fossimo Grillo (o Di Maio o Di Battista fate voi) diremmo grazie a Ferruccio de Bortoli. Non tanto per le rivelazioni sui contatti avvenuti nel 2015 tra l’allora ministro, la renzianissima Maria Elena Boschi, e l’allora numero uno di Unicredit, Federico Ghizzoni onde sistemare, diciamo così, la disastrata Banca Etruria di papà Boschi (scoop che indubbiamente porta acqua alle opposizioni, 5Stelle in testa). Ma perché si deve a persone come de Bortoli se in Italia esiste un giornalismo che si mette al servizio dell’opinione pubblica: “Architrave di una democrazia” per dirla con Giovanni Sartori. E non certo per compiacere una parte o l’altra. Quella stessa opinione pubblica che molto spesso ha scelto di votare il M5S come reazione all’uso privato della cosa pubblica, pratica denunciata in questi anni o dalla magistratura o dalla libera informazione, punto e basta. Ci torneremo tra un attimo.
Dopo le clamorose anticipazioni del suo libro Poteri forti (o quasi) subito le mosche cocchiere del “chissà cosa c’è sotto” invece di interrogarsi sul gigantesco conflitto d’interessi del caso Boschi (Ghizzoni o non Ghizzoni) hanno pensato bene di investigare su de Bortoli con simpatiche domande del tipo: perché queste cose non le ha scritte sul Corriere? Oppure con le canoniche maldicenze su cosa non si farebbe per vendere qualche copia in più.
Quanto di più sbagliato. Se pure non conoscessi Ferruccio da una vita, e dunque il suo estremo rigore fonte primaria dell’autorevolezza che tutti gli riconoscono, potrei testimoniare, da giornalista che scrivendo quelle poche righe sulla Boschi egli, vi assicuro, sapeva che ne avrebbe ricavato più oneri che onori, più grane che medaglie. Eppure le ha scritte. O meglio: non poteva non scriverle nel momento stesso in cui quelle notizie aveva appreso e verificato. Magari suscitando un certo imbarazzo nel suo stesso giornale nel trattare (nelle pagine interne) l’affaire Boschi, che è il caso politico del momento.
Capita a chi fa questo mestiere rispondendo soltanto alla propria coscienza. De Bortoli non strilla, non strattona, non insulta, non ne ha bisogno e chi leggerà le sue memorie “di oltre quarant’anni di giornalismo” scoprirà che dietro lo stile cortese (che gli ha procurato qualche ironia) si nasconde un direttore, come giusto, inflessibile nel tutelare contro qualsiasi pressione esterna il lavoro dei propri colleghi e soprattutto il diritto dei lettori a conoscere.
Sono lì a dimostrarlo le inchieste del Sole 24 Ore sulla bomba dei contratti derivati, sugli scandali bancari, sulla distruzione e spoliazione di Alitalia. Come direttore del Corriere della Sera non deve essere stato il più gradito a Silvio Berlusconi soprattutto dopo aver pubblicato le serate eleganti con Patrizia D’Addario.
Troppo simpatico non sarà stato neppure a Matteo Renzi, protagonista di una scenataccia contro un giornalista del Corriere colpevole di averlo seguito in vacanza per fare semplicemente il suo lavoro da cronista. Sarà stato un caso ma de Bortoli per due volte ha dovuto lasciare la stanza più importante di via Solferino: sotto il governo Berlusconi e sotto il governo Renzi, poco dopo l’articolo sull’“odore stantio di massoneria” nel Giglio Magico.
Quanto a Grillo, de Bortoli scrive che “come tutti gli uomini di potere ama gli adulatori e gli scendiletto, detesta i disturbatori e gli articoli sgradevoli tende a rimuoverli con gli insulti”. Anche Gianroberto Casaleggio, leggiamo, “aveva un atteggiamento simile, era convinto che la stampa tradizionale fosse soltanto una propaggine dell’articolazione del potere all’interno di una società, tendeva a escludere l’indipendenza che è il portato della preparazione e della coscienza del ruolo di un buon professionista”. De Bortoli è la dimostrazione di quanto sia miope generalizzare sul ruolo della stampa. Perciò non potendolo (ancora) licenziare, i 5Stelle almeno lo ringrazino.