È comprensibile che l’onorevole Giovanardi e il senatore Gasparri siano insorti contro Rocco Schiavone e il suo spinello quotidiano. Il talento del vicequestore e il suo successo (Rai2, mercoledì sera) sono la prova che a farsi una canna non si finisce per forza a San Patrignano ma alla Questura d’Aosta, e guai se non ci fosse lui. La levata di scudi prova anche quel che sapevamo già: i nostri politici non leggono un libro in croce, visto che nei romanzi di Antonio Manzini, Schiavone fuma cannabis da quattro anni e nessuno fiata; saltano su per l’approdo in Tv, la sola cosa che conoscono e gli interessa. Insomma, sui libri pazienza, tanto non li legge nessuno, ma il video va sottoposto alla censura della politica: difficile sintetizzare meglio il rapporto tra cultura e Terzo mondo.
Tutto corroborato da una bruta assenza di gusto, visto che la serie funziona proprio per il suo spessore letterario. Sradicato, vedovo, solitario e malmostoso, Rocco è la vera invenzione di Manzini, cui Marco Giallini dà un ulteriore retrogusto amaro, mandando in crisi d’identità la fiction Rai. Anche lo Schiavone televisivo è uno sbirro che insegue la verità ma dubita della giustizia. Non si gli si può togliere il loden, come non si può togliere il trench al Tenente Colombo. Al contrario di Don Matteo non redime i cattivi, casomai è poco convinto della bontà dei buoni. Pensa che di buono, a questo mondo, non ci sia granché. A parte cominciare la giornata con uno spinello, si capisce.