Sembra sempre uno scontro titanico, poi si riduce a una questione di zero virgola. Il negoziato ormai perenne tra governo italiano e Commissione europea viene presentato dai giornali come “un braccio di ferro” o uno “scontro frontale”, ma assomiglia piuttosto alla dinamica di quelle coppie in cui entrambi i partner fingono di non vedere i tradimenti dell’altro per evitare drammi.
Intendiamoci: Matteo Renzi ha tutto il diritto di mettere in discussione gli automatismi che dal 2011 si sono stratificati, stringendo i conti italiani nella morsa di Two Pack, Six Pack, Fiscal Compact e altre degenerazioni del Patto di Stabilità. Buona parte delle richieste europee all’Italia dipendono dal parametro dell’output gap, misura di quanto l’economia italiana è lontana dal suo potenziale di crescita: nel 2015 secondo la Commissione era il 3 per cento del Pil, secondo il Fondo monetario il 3,9, per l’Ocse il 4,7. Si possono pretendere tagli e tasse dolorosi sulla base di un riferimento così incerto?
E ci sono molti argomenti per sostenere che serve spesa pubblica straordinaria per reagire al dramma della crescita zero. Secondo una stima di Luiss e Deloitte, tra il 2008 e il 2013 la crisi ha prodotto un calo di investimenti in Italia di 62 miliardi, con il risultato che ci siamo persi 86 miliardi di Pil.
Ma il governo Renzi è tanto assertivo nelle dichiarazioni, quanto privo di piani ambiziosi nella pratica. Si limita a cercare di preservare lo status quo: rinviare i 15,1 miliardi di aumenti dell’Iva che in assenza di interventi scatterebbero nel 2017 con le clausole di salvaguardia, confermare un altro sconto Ires per le imprese a cui concedere un aiuto sugli investimenti con il super-ammortamento (sconti fiscali superiori alla somma investita). La revisione della spesa è passata da priorità a tabù, le “privatizzazioni” si sono tradotte nella cessione a privati di rendite di posizione che spetterebbero allo Stato, frutto di semplici monopoli naturali (Poste, Enav, prima o poi Ferrovie) o passaggi di azioni dal Tesoro alla Cassa Depositi e Prestiti.
L’esito di tutti quei vertici con Angela Merkel e con Bruxelles sembra quello di conquistare il diritto a restare fermi. Scelta che può rivelarsi pericolosa.
Nella legge di Stabilità 2016, l’Italia ha usato tutta la flessibilità consentita dalle regole europee – 19 miliardi, ci ha ricordato il presidente della Commissione Jean Claude Juncker – e ha convinto Bruxelles ad avere ulteriori deroghe per le spese sostenute per l’emergenza migranti. Soldi che il governo ha usato, tra l’altro, per dare un bonus a tutti i 18enni da spendere in “cultura”: 290 milioni.
Mance dal sicuro impatto elettorale ma dall’incerta razionalità economica. Come i 10 miliardi all’anno per gli 80 euro in busta paga, come i 13 e oltre per sostenere le assunzioni così da dimostrare che le riforme del Jobs Act avevano funzionato. Spendere soldi è facile e garanzia di popolarità. Spendere nel modo più efficace, con il maggiore impatto su Pil e occupazione, è assai più complesso.
E a vedere la situazione dell’economia italiana si può dire, come minimo, che qualcosa non ha funzionato. Il Pil è fermo, secondo gli ultimi dati Istat, gli ordinativi dell’industria a luglio erano in calo dell’11,8 per cento rispetto al 2015. E alcuni settori si sono fermati, come l’auto che aveva sostenuto l’industria lo scorso anno: gli ordinativi del luglio 2016 sono il 35 per cento in meno di quelli del 2015. Gli occupati continuano a crescere solo tra i cinquantenni, effetto più della riforma Fornero delle pensioni che del Jobs Act. E a marzo potrebbe finire il sostegno straordinario della Bce che permette all’Italia di risparmiare miliardi di euro di interessi sul debito.
Purtroppo sembra che Renzi abbia dilapidato l’unica risorsa sulla cui scarsità neppure Bruxelles può concedere margini: il tempo.