Il 16 gennaio Oxfam (una confederazione di Ong) ha presentato il suo rapporto annuale su povertà e disuguaglianze. Molta evidenza, sui giornali, è stata data ai numeri, davvero impressionanti: “Circa metà della ricchezza è detenuta dall’1 per cento della popolazione mondiale; il reddito dell’1 per cento dei più ricchi del mondo ammonta a 110.000 miliardi di dollari, 65 volte il totale della ricchezza della metà della popolazione più povera del mondo; negli Stati Uniti, l’1 per cento dei più ricchi ha intercettato il 95 per cento delle risorse a disposizione dopo la crisi finanziaria del 2009, mentre il 90 per cento della popolazione si è impoverito”.
I numeri sono stati contestati dal Foglio, perché “i dati usati da Oxfam misurano la ‘ricchezza netta’, ovvero attivi meno debiti. Ciò vuol dire che tra i più poveri del mondo ci sono tutti quelli che hanno più debiti, ma avere debiti non significa di per sé essere poveri”. Esempio: i debiti di studio degli studenti di Harvard. Si potrebbe dire che su scala globale sono esempi poco rilevanti. Altro caso sollevato è il confronto tra l’indice di Gini (quello che misura la disuguaglianza) della Danimarca (89,3 per cento) e della Bielorussia (62 per cento), dove però il 99 per cento della popolazione ha meno di 10mila dollari. Tutti uguali, ma tutti poveri. Il punto, se è consentito, è un altro: è la dinamica, il trend a svelare come questo modello economico sia sempre più insostenibile, tesi sostenuta anche da economisti come Thomas Piketty. Anche se il rapporto di Oxfam fosse spannometrico, il tema è così rilevante che persino l’élite delle élite riunita a Davos ne discute. Lo stesso Barack Obama ha posto la questione.
Il rapporto di Oxfam analizza non solo la disparità di ricchezza, ma anche di reddito (entrate da lavoro e altre): “Tra il 1988 e il 2011 i redditi del 10% più povero della popolazione sono aumentati di 65 dollari, meno di tre dollari all’anno, mentre quelli dell’1 per cento più ricco sono aumentati 182 volte tanto: 11.800 dollari”. I dati italiani rivelano un incremento complessivo del reddito nazionale “pari a 220 miliardi di dollari: quasi la metà dell’incremento (45%) è fluito verso il top-20% della popolazione (il 29% al top-10%). In particolare, il 10% più ricco della popolazione ha accumulato un incremento di reddito superiore a quello della metà più povera degli italiani”.
E qui il tema della disoccupazione è ovviamente centrale. Altre affermazioni contenute nel report sono passate in secondo piano, ma sono importanti. Sul fronte delle tasse si afferma che “sin dalla fine del 1970 la tassazione per i più ricchi è diminuita in 29 Paesi sui 30 per i quali erano disponibili dati. Ovvero: in molti Paesi, i ricchi non solo guadagnano di più, ma pagano anche meno tasse”. Quando le pagano: “Ovunque, gli individui più ricchi e le aziende nascondono migliaia di miliardi di dollari al fisco in una rete di paradisi fiscali in tutto il mondo. Si stima che 21.000 miliardi di dollari non siano registrati e siano offshore”.
Quali sono le conseguenze? “Le élite economiche mondiali agiscono sulle classi dirigenti politiche per truccare le regole del gioco economico, erodendo il funzionamento delle istituzioni democratiche e generando un mondo in cui 85 super ricchi possiedono l’equivalente di quanto detenuto da metà della popolazione mondiale. Il rapporto evidenzia come l’estrema disuguaglianza tra ricchi e poveri implichi un progressivo indebolimento dei processi democratici a opera dei ceti più abbienti, che piegano la politica ai loro interessi a spese della stragrande maggioranza”. Ora ammesso pure che i numeri siano poco accurati, la sostanza non è in discussione. E quindi: non si fa che parlare di populismi e di cercare risposte ai risultati elettorali che l’establishment non si spiega. Qualcuna sta sicuramente qui dentro.