Se a qualcuno venisse in mente di dedicare una lapide ai giorni del G8 di Genova, dovrebbe scrivere poche, chiarissime parole: “Qui morì la speranza di una generazione. Qui fu represso con mezzi straordinari e modi brutali l’ultimo movimento di popolo. Qui fu seppellita per sempre ogni possibilità di rinascita della sinistra italiana”.
Il resto sono chiacchiere, distratte ricostruzioni della cronaca che fu, torsioni di una storia scritta con la penna del vincitore. Ricordate lo slogan di quei giorni di luglio? Era semplice: “Un altro mondo è possibile”. Moltitudini di giovani, ma anche di “vecchi”, di operai, ma pure disoccupati, di intellettuali, portatori di antichi e nuovi pensieri, riuniti in sigle storiche della sinistra, ma anche cattoliche, insieme a nuovi e fantasiosi movimenti no-global, conquistavano la scena. “Un altro mondo è possibile”.
Era una critica forte ai meccanismi della globalizzazione e alle sue regole spietate. C’era speranza, rabbia, voglia di esserci e di contare. Ma quel movimento andava represso, annichilito. E così fu. In Italia, annotò Amnesty, in quei giorni ci fu “la più grande sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda Guerra Mondiale”. “Una intera generazione venne buttata a mare”, scrisse con tristezza il sociologo Marco Revelli. Il movimento morì, tra macellerie messicane e garage Olimpo, tradito da una democrazia debole e da imbelli dirigenti di una sinistra che pensava più al governo che alle piazze. Da allora le speranze sono svanite, la solitudine sociale ha preso il sopravvento, il rancore individuale è divento rabbia da sfogare nei talk. Che pena! Neppure un funerale è stato celebrato in morte di quell’ultima ventata di democrazia di massa. Non è previsto al tempo dei populismi senza popolo.