All’annuncio è seguito il fatto. Walter Veltroni, come anticipato in un’intervista al Corriere della Sera, è entrato in commissione Antimafia. Suona strano, però, che a liberargli il posto in quota Pd sia stato un parlamentare, Franco Laratta, giornalista-scrittore attivo in campagne politiche e di comunicazione anti-ndrangheta nella difficile terra di Calabria. In una lettera a Dario Franceschini, Laratta spiega di aver chiesto e ottenuto, dimettendosi per consentire l’ingresso di Veltroni, “l’impegno del Pd nazionale in una lotta ancora più forte contro tutte le mafie”. Un po’ come se il centravanti abituato a bazzicare l’area di rigore venisse sostituito dall’allenatore, pur nella comune volontà di fare gol alla squadra avversaria. Eppure c’erano altre soluzioni. Ad esempio, perché non far uscire dall’Antimafia qualche parlamentare del Pd eletto a Napoli? Sono in diversi e ci chiediamo che stiano facendo nella regione stritolata dalla camorra, dove la giornalista Rosaria Capacchione, che vive sotto scorta per le minacce dei clan casalesi, prima è stata candidata alle europee nelle fila del Pd come segnale di lotta alla illegalità, poi è stata abbandonata a se stessa dal partito, senza riuscire a essere eletta, perché sgradita ai capobastone di Franceschini e Bassolino.
Una settimana fa il sindaco di Pompei Claudio D’Alessio, anch’egli del Pd, fresco di rielezione, è stato segnalato dai carabinieri al matrimonio della nipote del boss di camorra Carmine Alfieri, insieme a 32 pregiudicati per reati vari. D’Alessio non ha trovato di meglio da dire che “la sposa era incensurata e la conoscevo sin da bambina”, e di chiedere sospettoso se l’incursione dei carabinieri non fosse un tentativo di “rovinarmi la carriera politica”. E i parlamentari locali dell’Antimafia come hanno commentato la vicenda? Con un silenzio assordante.
Tra loro c’è Salvatore Piccolo, ex presidente della Provincia di Napoli, candidato nell’ottobre 2007 alla segreteria campana del Pd, sconfitto dal demitiano Tino Iannuzzi. Nelle liste a sostegno di Piccolo per l’assemblea costituente regionale si candidò Antonino D’Auria, all’epoca sindaco di Sant’Antonio Abate, già segretario del ministro dell’Interno Antonio Gava. D’Auria nel giugno del 1994 ha patteggiato due anni di reclusione, pena sospesa, “per aver partecipato a un’organizzazione di tipo mafioso, promossa, diretta e organizzata da Alfieri Carmine”. Il patteggiamento venne definito nell’ambito del processo sui rapporti tra camorra e politica che si concluse con l’assoluzione di Gava e la condanna dell’ex senatore gavianeo Dc Francesco Patriarca a nove anni di carcere. Nel Pd che si accingeva a nascere con la liturgia delle primarie dall’esito scritto pro Veltroni, nessuno ricordò il passato di D’Auria. Nemmeno Veltroni, che pure chiese a Roberto Saviano di fare da docente alla scuola di formazione politica del Pd, che aveva le liste di Piccolo a suo sostegno, e che ora si accinge a lavorare nell’Antimafia perché, parole sue “non si può accettare passivamente di vivere in un Paese in cui le mafie hanno un potere sempre più invadente”.