Nell’emisfero berlusconiano l’emergenza diventa la regola, il provvisorio permanente. La linea dura contro gli immigrati, culminata nell’introduzione del reato di “ingresso e permanenza clandestina”, fa acqua da tutte le parti. Il problema è semplice: gli individui potenzialmente denunciabili sono tantissimi (un milione gli irregolari in Italia, secondo stime della Caritas), ma non ci sono strutture in grado di trattenerli, in attesa del processo. Non possono essere detenuti in carcere, e i centri destinati ad accoglierli sono al collasso. Non c’è posto per loro, così l’immigrato viene prima denunciato e poi rilasciato. Difficilmente si presenterà al processo, che si svolgerà in contumacia. Di fronte a quest’emergenza, cosa farà il governo? Si comporterà come nell’estate 2008, quella degli sbarchi senza fine? Ricorrerà ancora una volta al provvisorio, per farlo diventare permanente?
L’anno scorso un fiume umano raggiunse le coste della Sicilia, in fuga da guerre e carestie che martoriano l’Africa, dal Sudan all’Eritrea, dal Niger al Burkina Faso. Arrivarono in troppi, a tal punto che al Viminale decisero di lanciare l’allarme, di certificare che il sistema era al collasso. Dall’allarme nacquero i centri “fantasma”. Quarantanove strutture “provvisorie” destinate ad accogliere gli immigrati, a fornirgli la prima, necessaria, assistenza. Accanto ai tredici Cie (Centri di Identificazione ed Espulsione), che, come dice il Ministero dell’Interno, trattengono “gli stranieri extracomunitari irregolari destinati all’espulsione”. In aggiunta ai dieci Cda (Centri di Accoglienza) “ufficiali”, che “garantiscono un primo soccorso allo straniero irregolare”. In appoggio agli otto Cara (Centri Accoglienza Richiedenti Asilo) “governativi”.
Dopo un anno quelle residenze restano dei fantasmi. Nel sito del Ministero, alla voce “i centri dell’immigrazione” si parla di tre tipologie di strutture “che accolgono e assistono gli immigrati irregolari”: i Cie, i Cda e i Cara. Quei quarantanove centri non compaiono. Del resto, doveva trattarsi di una soluzione provvisoria, d’emergenza. Il problema è che l’emergenza è diventata la norma. Così, un’estate dopo, ben ventiquattro strutture sono ancora aperte. Ospitano 1.538 immigrati che hanno fatto richiesta di asilo politico. Svolgono la stessa funzione dei centri “governativi”, anche se lavorano nell’ombra.
Prima c’è stato il decreto del 25 luglio 2008, poi l’ordinanza del 12 settembre, infine il decreto del 18 dicembre. Lo stato di emergenza “per fronteggiare l’eccezionale afflusso di extracomunitari”, relativo alle sole regioni meridionali, è stato esteso a tutto il territorio nazionale e prorogato fino al 31 dicembre 2009. Il Ministero dell’Interno ha dato prova di fantasia, alloggiando gli immigrati nei luoghi più disparati, un ex ospedale psichiatrico (a Castiglione delle Siviere), una scuola alberghiera (ad Aviano), l’hotel “Lori” a Senigallia.
Emergenza vuol dire deroga alle procedure ordinarie, corsie preferenziali per ridurre i tempi burocratici. Così gli appalti sono stati affidati, in assenza di un bando pubblico, a privati, associazioni, cooperative. Con quali criteri? Sono stati scelti enti che già lavoravano col ministero o che, fanno sapere al Viminale, “avevano immediate capacità ricettive e di accoglienza”.
A Roma c’è quasi un monopolio degli appalti: l’Arciconfraternita del S.S. Sacramento gestisce ben quattro centri, per un totale di 246 posti. Nell’edificio della Croce Rossa a Castelnuovo di Porto, vicino alla Capitale, ci sono addirittura 480 ospiti. In questa mappa dell’accoglienza, Lazio e Sicilia sono all’avanguardia: ci sono strutture “provvisorie” in provincia di Trapani, Siracusa, Catania, Messina e Caltanissetta, ma anche a Latina e Frosinone. Dei quarantanove centri iniziali è rimasto anche un albergo, l’hotel Le Terrazze di Ancona.
La scelta degli enti è stata fatta in sordina, a volte all’insaputa di sindaci e cittadini. Un po’ perché l’emergenza imponeva tempi stretti, un po’ perché l’arrivo dei richiedenti asilo non è visto di buon’occhio dalle comunità locali. A Trevi, in provincia di Frosinone, si è formato un “Comitato per il no” al centro di accoglienza. Le motivazioni sono chiare: alcuni cittadini temono le ripercussioni della presenza immigrata sull’economia locale, in particolar modo sul turismo.
Di certo c’è che l’arrivo degli extracomunitari rappresenta un grande affare per i gestori delle strutture. Gli enti ricevono dal Viminale circa 55 euro al giorno per ogni ospite, quasi il doppio di quello che lo Stato paga alle associazioni e ai 120 comuni che aderiscono allo Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), il programma in cui il profugo entra a far parte quando la sua domanda viene accolta.
Il business degli appalti ha suscitato l’interesse della magistratura, che ha ipotizzato pressioni politiche per orientare la scelta degli enti in una certa direzione. Il sostituto procuratore di Potenza John Woodcock ha indagato in particolar modo sui servizi di ristorazione dei centri di accoglienza. Nel mirino è finita la società “Auxilium”, collegata alla cooperativa “La Cascina”, della galassia di Comunione e Liberazione, vincitrice di più appalti. Gli atti dell’inchiesta sono stati trasmessi da Potenza alle procure dove si sarebbero verificati gli illeciti. Woodcock ha indagato anche su nomi eccellenti, come il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, oltre al prefetto Mario Morcone, attuale capo del Dipartimento Immigrazione del Viminale. La procura di Roma, però, ha già chiesto l’archiviazione della loro posizione.
Il Viminale è corso ai ripari. E’ stato approvato un nuovo capitolato di appalto per la gestione dei centri. Ad esempio, il prezzo dell’appalto non è più calcolato su base giornaliera e in relazione al numero degli ospiti, ma è dato da un canone annuo.
Il problema, però, non è solo il business. Sono quei 1.538 immigrati che abitano nei centri provvisori. Hanno fatto richiesta di protezione internazionale, vengono soprattutto dal Corno d’Africa devastato dalle guerre, dal Sudan delle pulizie etniche, dall’Afghanistan in bilico tra Occidente e talebani. Secondo il sito del Ministero, nei Cara “governativi” lo straniero viene ospitato “per un periodo variabile di 20 o 35 giorni”. Nei Cara provvisori i richiedenti asilo restano molti mesi, a volte anche un anno. A maggio un gruppo di ospiti del centro di Castelnuovo di Porto ha marciato sulla Capitale, chiedendo una sola, semplice, cosa: asilo politico in tempi ragionevoli. A giugno, nello stesso centro, è scoppiata un’enorme rissa, tra nigeriani e cittadini del Burkina Faso. Perché in queste strutture si annidano spesso odi atavici, tensioni esasperate dalla lentezza della burocrazia. Una miscela esplosiva, che scoppia tutte le volte che l’emergenza diventa la regola.