Ha raggiunto lo scopo la campagna del centrodestra scatenata dopo il caso di Michelangelo D’Agostino, il pentito di Camorra internato a Modena che nel luglio 2008 in licenza lavorativa a Pescara uccise il 64enne balneatore Mario Pagliari al culmine di una lite per futili motivi. Il giudice di sorveglianza Angelo Martinelli, accusato di “scarcerazioni facili di pericolosi criminali” e sottoposto ad azione disciplinare dal Ministro Alfano, ha chiesto di passare alla giustizia civile.
D’altronde la vicenda di D’Agostino, 54enne cutoliano tra gli accusatori di Enzo Tortora, è perfetta per i dilettanti del tiro al magistrato: ”Martinelli è noto per una serie di provvedimenti discutibili attraverso i quali – recita l’interrogazione del deputato Pdl, avvocato Isabella Bertolini – sono stati lasciati liberi di circolare clandestini o pericolosi criminali, personaggi che di sicuro avrebbero dovuto rimanere in carcere. Di fronte a fatti come questi si avverte sempre più urgente una riforma del sistema giudiziario che introduca un principio di responsabilità diretta del magistrato”. Naturalmente non si tratta di scarcerazioni ma di licenze per internati sottoposti a misure di sicurezza della Casa di lavoro (quella di D’Agostino scadeva nel gennaio 2009). Persone che dunque hanno già espiato la pena e vengono fatte lavorare all’esterno ai fini del reinserimento. Semmai c’è da chiedersi perché il nostro sia l’unico Paese ad applicare la misura di sicurezza (e i soggiorni obbligati) come palliativo a un sistema che produce le pene più lievi e incerte del mondo occidentale. Dove non c’è translation neppure per le parole indulto e amnistia, la prescrizione non significa impunità per i colletti bianchi poiché – vedi Stati Uniti – si calcola solo durante le indagini, e non esistono i saldi per legge. In Italia, a differenza di quanto propina la vulgata sui benefit dorati ai pentiti (strumento fondamentale contro le mafie depotenziato per voto bipartisan 10 anni fa con l’assurdo limite di 180 giorni), ne usufruisce tutto l’arco delinquenziale.
La collaborazione di D’Agostino non fu solo il bluff su Tortora: la Camorra gli uccise il padre e il fratello mentre di recente è risultato decisivo nella condanna del boss dei Casalesi Sandokan Schiavone. Nel caso specifico si può discutere sull’entità (trent’anni di reclusione) ma il pregiudicato campano aveva finito di scontare la pena. La famiglia Pagliari ha tutto il diritto di provare dolore e rabbia ma il dottor Martinelli, che pure ha dichiarato di sentirsi umanamente responsabile, consentì a D’Agostino di inserirsi nel mondo del lavoro sulla base dei pareri positivi degli esperti. L’ispezione ministeriale, dopo proclami apocalittici, ha partorito una contestazione solo sulle “licenze continuate”: secondo Alfano il magistrato avrebbe dovuto farlo rientrare ogni volta da Pescara interrompendo, di fatto, il rapporto di lavoro. Davanti alla Procura generale della Cassazione Martinelli ricorderà i tanti casi in cui, negli ultimi trent’anni, la norma è stata interpretata e applicata dagli operatori nel segno della continuità. Nel frattempo la squadra Mobile di Modena ha scoperto che il giudice è finito nel mirino del Clan dei Casalesi. Un pericolo reale, tanto da fargli assegnare una vigilanza speciale dopo l’intercettazione di alcuni dialoghi tra i detenuti Antonio Pagano e Nicola Nappa, fedelissimi del superboss Raffaele Diana, raggiunti 4 mesi fa da ordine di custodia per aver gestito gli affari del Clan grazie a due secondini complici: “Non ne vuole sapere proprio dei Casalesi… Eppure lo dobbiamo buttare con la testa sotto, quello lo deve capire… Deve passare quel guaio”. Di brindisi, se sarà accolta la richiesta di trasferimento, ce ne sarà più d’uno.