In vista dell’uscita del Fatto Quotidiano, il giornale che ho contribuito a fondare e che sarà in edicola dal 23 settembre diretto da Antonio Padellaro, senza padroni né soldi dallo Stato, affiggerò in redazione l’elenco delle frasi fatte e luoghi comuni che mi danno l’orticaria sugli altri giornali e che non vorrei mai trovare sul nostro. La cosa che più detesto sono i titoli contenenti espressioni sciatte del tipo “è polemica”, “è bufera”, “è scontro”, “è guerra”, “è giallo”. Quest’ultima, soprattutto se applicata a qualche delitto irrisolto, la trovo di un raro umorismo macabro, ovviamente involontario. “Trovato cadavere in un fossato, è giallo” fa immediatamente pensare a un caso di itterizia. Un’altra parola che abolirei volentieri dal vocabolario della stampa è “emergenza”, che si porta su tutto, quattro stagioni: emergenza immigrazione, emergenza criminalità, emergenza incendi, emergenza stupri, emergenza maltempo, emergenza caldo, emergenza freddo e così via. Spesso viene usata a prescindere, per dire tutto e il suo contrario. Per esempio, a ogni escalation di delitti si dice invariabilmente “emergenza sicurezza” o “emergenza criminalità”, come se fossero sinonimi: ma la sicurezza non è un’emergenza, semmai lo è l’insicurezza.
Non vorrei mai leggere articoli sul caldo record e sul freddo record, anche perché di solito accompagnano fenomeni naturali del tutto prevedibili, scontati, normali e tutt’altro che record: d’estate fa caldo e d’inverno fa freddo, anno più anno meno. Possibile che a ogni cambio di stagione dobbiamo sopportare simili scemenze? Siccome quella del Fatto è una redazione molto giovane e i neuroni dovrebbero funzionare a pieno ritmo, amerei molto qualche sforzo di fantasia, onde evitare che New York sia sempre “la Grande Mela” e che ogni titolo su Pechino e dintorni finisca immutabilmente per suonare “la Cina è vicina”. Per non parlare delle sciagure prevedibili ed evitabili, che il redattore pigro e ammuffito finisce regolarmente per titolare “cronaca di una morte annunciata”. Un titolo che, a furia di scimmiottarlo, dev’essere venuto a noia anche a Gabriel Garcia Marquez.
Capisco poi le esigenze di brevità: ma mi domando come facciano i giornali stranieri a chiamare i presidenti “Mr Obama”, “Mr Brown” o “Monsieur Sarkozy”, mentre i nostri ciancicano di “Silvio”, “Giorgio”, “Gianfranco”, “Umberto”, “Massimo”, “Tonino”, manco fossero al bar. Abolirei poi, anche con multe salatissime per i trasgressori, espressioni molto in voga ma da matita rossa e blu. Come “tra le fila del partito”, “tra le fila del parlamento”, “tra le fila dell’esercito”, “serrare le fila” e così via. “Fila” si usa soltanto per l’espressione gergale “tirare le fila” (plurale irregolare femminile di filo), mentre in tutti gli altri casi si dice “file” (plurale regolare femminile di “fila”): “tra le file del partito”, “del parlamento”, “dell’esercito”, “serrare le file” e così via.
Infine vorrei tanto che si usassero le parole giuste per descrivere le cose. In Afghanistan i nostri soldati sono in missione di guerra, non di pace. E l’“assoluzione per prescrizione” non esiste, anzi è un controsenso come una corsa per staticità o una nuotata per annegamento: l’assolto è un innocente che viene riconosciuto tale per non aver commesso un reato, mentre il prescritto è molto spesso un colpevole che la fa franca perché il processo è durato troppo a lungo (spesso a causa sua e del suo avvocato). Giuro che, se leggo anche sul Fatto Quotidiano che Berlusconi, Andreotti, D’Alema (o peggio ancora Silvio, Giulio, Massimo) sono stati “assolti per prescrizione”, faccio un macello. Anzi, un’emergenza scontro. Cronaca di un cazziatone annunciato.
dal magazine A – rubrica Il Guastafeste
Ringrazio gli amici del blog per i loro commenti al mio post, mai così utili e pertinenti come questa volta. Il mio scopo, quando ho scritto i miei “Sconsigli per il Fatto”, era proprio quello di sollecitare le delazioni e le segnalazioni dei nostri futuri lettori, per sapere quali espressioni, slogan, frasi fatte, modi di dire giornalistici li urtano di più. Ne ho raccolta una gran mole, che riporterò in un prossimo articolo, poi affiggerò la black list in redazione. Per un errore, è inizialmente uscita online una versione non corretta dell’articolo, a proposito della prescrizione: la versione giusta è quella che trovate ora, in cui si dice che “l’assolto è un innocente che viene riconosciuto tale per non aver commesso un reato, mentre il prescritto è molto spesso un colpevole che la fa franca perché il processo è durato troppo a lungo (spesso a causa sua e del suo avvocato)”. Riconosco che, per un eccesso di sintesi, ho tralasciato altre possibili formula assolutorie: non c’è solo il “non aver commesso il fatto”, ma anche “il fatto non sussiste”, o ancora “il fatto non costituisce reato” oppure “non è previsto dalla legge come reato” (o magari non lo è più, perché l’imputato, uno a caso, l’ha nel frattempo depenalizzato); e all’interno delle varie formule si nasconde talora la vecchia insufficienza di prove, oggi assorbita dal comma 2 dell’articolo 530 del codice di procedura penale (“la prova manca o è contraddittoria o è insufficiente”). Ma, come molti fortunatamente hanno capito, mi riferivo ai processi eccellenti, contro imputati potenti, cioè a quelli che finiscono sui giornali: quelli, cioè, in cui l’imputato, essendo un personaggio pubblico, ha il dovere di rinunciare alla prescrizione e di farsi giudicare anche fuori termini, per essere dichiarato estraneo ai fatti, cioè innocente. Tecnicamente so benissimo che a volte la prescrizione viene dichiarata in fase di indagine, e dunque non presuppone un giudizio sulla colpevolezza dell’indagato (che però può sempre rinunciarvi, e forse dovrebbe farlo se è accusato di gravi reati ed è un personaggio pubblico). A meno che, s’intende (come nel caso dei 20 milioni versati in nero dall’imprenditore malavitoso Cavallari a Massimo D’Alema), l’indagato abbia confessato dinanzi al pm. Quando invece la prescrizione viene dichiarata durante il processo, dopo il rinvio a giudizio, vuol dire che l’innocenza dell’imputato non emergeva chiaramente dagli atti, altrimenti il giudice avrebbe avuto il dovere di assolvere l’imputato anche se il reato era prescritto. Nel caso poi di Andreotti, ritenuto colpevole ma salvo per prescrizione del reato in appello e in Cassazione con sentenze che ribaltano l’assoluzione di primo grado, non c’è solo una mancanza di elementi per attestarne l’innocenza: ci sono tutti gli elementi per affermarne la colpevolezza. Idem per Berlusconi, per esempio nel processo All Iberian. Oltretutto, molto spesso la prescrizione in giudizio viene concessa in seguito alla attenuanti generiche, che ne dimezzano il termine: attenuanti che ovviamente si concedono al colpevole, non certo all’innocente.
Alcuni amici vedono poi una contraddizione nel mio appello a non chiamare i politici con il solo nome di battesimo (Umberto, Silvio, massimo, Tonino), visto che di frequente faccio ricorso a nomignoli o giochi di parole: mi pare evidente che mi riferivo ai titoli degli articoli di cronaca, non certo alle rubriche satiriche o alle vignette, dove il dileggio è di casa a pieno titolo.
Quanto a “Puttanopoli”, nostra definizione dello scandalo di Bari nel sottotitolo del libro “Papi”, non vedo il problema: se Tangentopoli era la città delle tangenti, Puttanopoli è la città delle puttane, pardon delle escort. Mi pare etimologicamente corretto.
Consiglio infine a uno dei miei censori più acrimoniosi di fare attenzione alle travi nel suo occhio, prima di cercare le pagliuzze nel mio: “Fra laltro” si scrive con l’apostrofo.