Giornalisti che cambiano poltrona come non era mai successo nell’agosto bollente. Da destra a destra. O da destra alla Rai. Berlusconi organizza le truppe per blindare nel silenzio un autunno ancora più caldo. Non sono giornalisti qualsiasi, ma giornalisti leopard, legione straniera con passaporto italiano. Credono, obbediscono, combattono.
Ogni giornalista prova a diventare esperto di qualcosa: politica, Medio Oriente, America Latina, affari europei, economia, cultura, scienza. La scienza frequentata dai leopard è sbatti il mostro in prima pagina. Che sia o non sia un mostro diventa secondario. L’importante è farlo rosolare il più a lungo possibile, impiccarlo nelle piazze per avvertire i giornalisti senza collare: sappiamo tutto, la curiosità si paga così. Il contratto d’ingaggio impone la difesa ad oltranza del padrone che li arma assieme agli amici fidati dei giornali attorno. Le polemiche si specchiano da una prima pagina all’altra. E le Tv amiche allargano le voci. Non basta inventare paure immaginarie e felicità delle quali nessuno si accorge. L’ordine é distruggere chi testimonia noiosamente la realtà per far sapere ai lettori cosa davvero succede. Raccontare che il re è nudo diventa peccato da punire con la gogna.. E il giornalismo vecchia maniera finisce sotto montagne di soldi. Contractors con stipendi-bottino da favola. Vip in tribuna d’onore a San Siro. Ville nei parchi che fanno gola al ministro Calderoli.
Eppure non sono i milioni l’attrazione fatale. Si nasce camerieri e si diventa mercenari. Dalle nuove poltrone promettono lacrime e sangue. “Sto solo armando il fucile“, il Feltri delle bande nere prepara la rappresaglia dal Vaticano in giù. Fare il giornalista è una professione che contempla la vanità, e quando il mercato dell’informazione apre vetrine illuminate la tentazione può diventare irresistibile. Per i contractors non importa di quale luce si tratta. Si cambia. Si cambia per lo stipendio rotondo; si cambia per la voglia di menar le mani; si cambia per raccontare le cose che l’eleganza dei vecchi posti consigliava sfumare. Profilo che sintetizza le carriere leopard: pragmatici nell’obbedienza, disponibili a qualsiasi avventura. Il signore delle Tv non li raccoglie a caso. Fuori dalle colonne berlusconiane anche giornalisti normali migrano da una testata all’altra. Cambiano per i mal di pancia che accompagnano chiunque faccia questo mestiere, ma cambiano anche per inseguire la scioltezza garantita dalla mancanza di un riferimento partitico, libertà di essere solo testimoni e di arrabbiarsi senza brontolii e censure quando le ambiguità dei palazzi diventano insopportabili. La mia è una generazione grigia, educata al rispetto delle notizie, raramente una tessera, nessuna tentazione politica. Piccola storia personale. In questi giorni sto cambiando giornale. Da l’Unità al Il Fatto. Uscirà il 23 settembre. L’ha inventato e lo dirige Antonio Padellaro ispirando la testata alla trasmissione di Biagi chiusa dal proclama bulgaro di Berlusconi. Ritrovo Padellaro, Furio Colombo, Travaglio, Oliviero Beha, Corrado Staiano, Antonio Tabucchi vecchi amici e compagni nuovi.
Tanti ragazzi. Insomma, l’Unità liberal che Colombo e Padellaro avevano resuscitato otto anni fa. Allora, come oggi, arrivano in tanti per respirare la speranza di un giornalismo senza bandiere e senza l’obbligo di rispettare i dogmi di banche e imprenditori. Solo uno spazio dove raccontare ciò che è possibile dimostrare al di sopra dei preconcetti e con la trasparenza sospirata da ogni giornalista nell’adolescenza del mestiere. Sogni proibiti? Il dramma di una morale allo sfascio obbliga a provare. E’ il mio terzo giornale in 37 anni. Trent’anni di viaggi per il Corriere della Sera con batticuori mai placati quando tornavo in Italia: maggioranza silenziosa che sfilava in via Solferino minacciando Piero Ottone colpevole di considerare ogni lettore una persona da informare, stesso riguardo per tutti, e rifiuto di incensare il censo con silenzi o mazzi di fiori. Una certa borghesia non lo sopporta e Indro Montanelli se ne va per aprire il suo Giornale. Poi l’aria marcia della P2. Poi Alberto Cavallari chiamato dal presidente Pertini per restituisce al vecchio giornale una dignità subito stropicciata dal craxismo anni 80. I direttori venuti dopo Piero Ostellino continuano a difenderne l’indipendenza a volte impacciati da editori con interessi estranei alla buona informazione. Quando lascio il Corriere per l’Unità mi guardano come bestia rara. Ricordano che è sempre successo il contrario: migrazioni che risalgono dalle pagine della sinistra per respirare sicurezza nei fogli importanti. All’Unità sette anni senza dogmi da rispettare ma la tutela politica a poco a poco riaffiora. L’Unità di Colombo e Padellaro era un giornale di parte, non di partito anche se il partito di Gramsci stava dalla stessa parte. Colombo, Padellaro, Concita De Gregorio hanno permesso di scrivere senza cambiare una virgola eppure la libertà dello scavare in altro modo può contemplare prospettive diverse.
Ecco la nuova avventura. Filosofia del cambiare posto da non confondere con i sentimenti che animano il girotondo dei giornalisti killer. Soldi, soldi, mentre l’informazione di carta di soldi ne ha sempre meno. Soldi, soldi di un editore impuro come nessuno, anche se di puri non ne esistono quasi più. Insomma, Berlusconi prova a sopravvivere imbavagliando l’informazione normale. Affida agli specialisti dell’aggressione il compito di minacciare e scoraggiare. Chi alza gli occhi sui suoi affari finisce male. I giovani sono avvertiti. Anche vescovi e cardinali vanno informati che non si scherza. L’emergenza deve essere grave se Feltri viene richiamato al Giornale. Se ne era andato nel 1997 se ne era andato sbattendo la porta “quando ho capito che la famiglia Berlusconi aveva bisogno di un giornale di partito. Impossibile restare. E’ un mestiere che non so fare. Metà Forza Italia mi odiava. A Silvio Berlusconi stavo sulle palle perché una volta lo difendo e una volta lo punzecchio. Ma se il giornale non è male una ragione ci sarà e ne ho tenuto conto nella parcella“.
Soldi, soldi. In realtà è andato via per aver precisato che le inchieste che infangavano Di Pietro erano inventate di sana pianta. Confessione in prima pagina, campagna berlusconiana sbriciolata. Disinvoltura che accompagna Feltri da un giornale all’altro. Quando era cronista al Corriere della Sera si improvvisava portavoce della rivolta craxiana contro la trasparenza economica dei partiti invocata da Alberto Cavallari. Discorsi dalla prosa arrabbiata. Quand’era direttore dell’Indipendente esaltava quel Di Pietro che subito copre d’infamia appena arriva alla poltrona del Giornale.
Scriveva sull’Indipendente, anni Mani Pulite: “Ammesso che un magistrato abbia sbagliato, ecceduto, ciò non deve autorizzare i ladri e i tifosi dei ladri, gli avvoltoi del garantismo, a gettare anche la più piccola ombra sulla lodevole e non sufficientemente apprezzata attività di Borrelli e Di Pietro…Di Pietro non si è lasciato condizionare da critiche e minacce di mezzo mondo (diciamo dal regime del quale l’appesantito Bettino è campione suonato). Ha colpito senza fretta, nessuna impazienza di finire sui grandi giornali. Craxi ha commesso l’errore di spacciare i compagni suicidi come vittime di un complotto antisocialista. E’ una menzogna, onorevole“. Con quale imbarazzo può adesso guidare l’ammiraglia di Berlusconi con Stefania Craxi e la figlia di un suicida, pilastri del governo? Tranquilli: un professionista così non trema mai. Da un giornale all’altro fa amicizia con giornalisti con i quali organizza trasferte e testate. Maurizio Belpietro un po’ lo segue e poi ne prende il posto a Il Giornale. Fantastiche inchieste su Telekom Serbia. Mesi di pagine contro Prodi, Fassino: sinistra in croce. E un bel giorno neanche una riga. Il supertestimone ha inventato tutto ed è finito al fresco.
Feltri fonda Libero assieme a Renato Farina che lo aveva accompagnato nella direzione editoriale della catena Monti: Resto del Carlino, Nazione, Giorno. Certe trame del giornalismo non si intrecciano per caso. Feltri occupa l’ufficio che era di Franco Di Bella, direttore del Corriere della Sera negli anni P2. Di Bella aveva rimesso all’onore del mondo, scegliendolo come consigliere, Giorgio Zicari. Non perché tutti e due con la tessera di Gelli, ma per ridare lavoro ad un giornalista che disseppelliva documenti riservati e che quando a Brescia scoppia la bomba in piazza Della Loggia, confessa pubblicamente ai compagni di lavoro: mi dimetto dal Corriere perché sono un agente dei servizi segreti. Sembrava spaventato, non ha mai spiegato perché. Anche nei doppi mestieri il rispetto per il giornalismo un tempo era diverso. Sopravviveva un filo di vergogna. A volte le vocazioni possono sbocciare così. Farina non lascia Feltri nemmeno per un momento. Il suo nome nel codice 007 poteva essere Edera, non Betulla.
Su Libero dedica articoli memorabili a Berlusconi. Sinfonie che ingigantiscono il collezionista di cactus bonsai a passeggio con Farina nei giardini di villa Certosa. Forbici in mano: zac sfuma un rametto con la destra. Zac, con la sinistra telefona a Putin. Adulazione che Farina impallidisce nei primi giorni delle dieci domande e delle non risposte, capolavoro da professionista di flabello che ringrazia chi lo ha sistemato nella poltrona di onorevole. “Senza la leadership di Berlusconi l’Italia sarebbe preda piena e totale della dittatura del relativismo”. Attenzione, il nemico ci ascolta: “I sacerdoti che fanno la spia al Vaticano sulle intemperanze vere o presunte di Berlusconi paiono dolenti e mesti, ma sono felici come una Pasqua: lo lapidano dal pulpito dell’Avvenire“. Ultime parole su Libero e poi via con Feltri al Giornale dove subito spunta il documento contro il direttore dell’Avvenire. Da quale sacco esce la farina avvelenata ? Voglio rassicurare i lettori: nessuno dei collaboratori di domani e nessuno dei giornalisti in cammino verso Il Fatto assomigliano a questi signori.
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