Vorrei mettermi dalla parte di quei tre milioni di persone che domenica, molti pazientemente in fila per ore, hanno partecipato alle primarie del Pd, dandogli un’altra occasione (forse l’ultima) per cominciare a essere il partito che aveva promesso di essere. Ricordiamo tutti il discorso del Lingotto di Walter Veltroni, quando sembrava che stesse nascendo una grande forza politica in grado di imprimere a questo paese il famoso cambiamento. Cambiamento soprattutto, nel linguaggio della politica che consiste nel parlare con la gente facendosi capire dalla gente. Nei due anni successivi questo linguggio invece di sciogliersi in qualcosa di trasparente e di comprensibile si è aggrovigliato vieppiù fino all’incomunicabilità assoluta. Non abbiamo capito perché la nascita del Pd invece di rafforzare il governo Prodi non fece nulla per impedire la caduta dell’ultimo baluardo al nuovo dilagare del berlusconismo. Non abbiamo capito perchè il Pd di Veltroni affermò la sua vocazione maggioritaria isolandosi dal resto delle forze di centrosinistra e di sinistra.
Dopodiché riuscì sì a raggiungere quel 33 e rotti per cento di voti che costituì un buon risultato in sè ma lontano ben 12 punti dalla maggioranza per cui quello stesso Pd aveva manifestato la propria ‘vocazione’. Non abbiamo capito le vere ragioni che hanno spinto Veltroni a lasciare baracca e burattini da un giorno all’altro. E abbiamo rinunciato a capire cosa è successo dopo nel partito nato con tante sparanze e che ha rischiato di perdersi nelle risse interne e nella disillusione.
Adesso il Pd ha di nuovo un popolo e ha di nuovo un leader, Bersani. A cui si chiede non solo di costruire l’alternativa ma anche di dare ascolto a quei tre milioni di brave persone non abbandonandole al loro destino e alla loro solitudine come troppe volte è accaduto in passato. Bersani ha ragione: domenica è stato un bel giorno per la democrazia. Che ne seguano altri. Noi del Fatto staremo bene attenti affinché questa speranza non vada delusa.
Video: Le primarie del 25 ottobre
Video a cura di Paolo Dimalio e Irene Buscemi
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