Ma cosa stiamo accettando veramente quando il ministro Bondi ci dice che La Prima linea non dovrebbe essere finanziato? A prima vista nulla. Può sembrare persino una civile opinione, e infatti molti giornali si sono accontentati di questa verità di facciata: una parvenza di civiltà, l’elemosina di un giudizio pacato. Il ministro ci dice che quel film non rappresenta “nessuna apologia del terrorismo”. E che tuttavia non ritiene giusto che ottenga un solo centesimo di denaro pubblico, tanto meno il milione e mezzo di euro che (sia pure sotto condizionamento) era stato promesso.

Se ci pensate bene, dietro questa successione di veti, condizioni, diritti ottriati, revocati o concessi, si nasconde una nuova sottile e più temibile forma di censura. Intanto stiamo accettando l’idea che il potere politico decida se un’opera d’arte debba essere finanziata o meno, e questo è sempre sbagliato. C’è anche una commissione, che giudicherà, certo. Io conosco molti di quegli esperti: non penso che persone del calibro di Laura Delli Colli, possano prendere ordini. Ma se il ministro si pronuncia prima, la decisione della commissione si fa subito più difficile, diventa in ogni caso conflittuale, e questo non è giusto. Se un ministro trasforma un giudizio tecnico in un problema politico, gli spazi di libertà sono drasticamente ridotti da questo pronunciamento. Per tutti.

Secondo problema. Dimenticatevi per un attimo di essere lo spettatore che stasera entra in un cinema. Immaginate di essere un produttore che domani vuole fare un film o un regista che si innamora di una storia. Da oggi, dovete sapere che vi attende un vaglio ancora peggiore di quello di una polverosa burocrazia ministeriale, o della lotteria di una commissione in cui i rapporti di forza fra i gusti dei componenti possono darvi una chance. No: adesso siete nelle mani della politica. Se volete essere sicuri di ottenere il fondo, dovete pensare un soggetto che istintivamente possa piacere a Bondi (e domani – peggio mi sento – alla Melandri o alla Binetti). Il che vuol dire che, sotto il formale rispetto delle forme o del galateo, siamo arretrati di settant’anni. E’ vero, Giulio Andreotti disse che c’erano “troppi stracci” in Ladri di biciclette, un pretore bloccò Ultimo tango a Parigi (e ne ordinò la distruzione), una commissione di censura dispose che il Salò di Pasolini fosse censurato. Persino i soft-core degli anni Sessanta finivano sotto le forbici occhiute dei pretori sessuofobi nel Veneto bianco. Ma anche tra le maglie del regime democristiano dei varchi si aprivano: De Sica ebbe successo malgrado Andreotti, Bertolucci non fu distrutto, i frammenti di celluloide con il burroso seno della Fenech è tornato al suo posto. Tagliato, ma ricomposto.

Bisogna davvero tornare al MinCulPop e al Ventennio mussoliniano – invece – per trovare un potere così forte della politica. Qui il taglio avviene alla fonte: non ti produco, non te lo faccio fare. Così in un paese in cui il fondo non è stato negato nemmeno a un’opera fondamentale come I miei primi quarant’anni di Marina Ripa di Meana, un ministro ci dice: questo film mi piace, ma siccome tratta un tema che per me è politicamente scomodo, non gli do una lira. E’ un potere di veto, che induce l’autocensura. Il che è gravissimo. Chi scrive non è tra i detrattori aprioristici di Sandro Bondi. Ma da stasera ci vorrebbe entrare nel club. Perché in un paese civile non si può passare dal MinCul-Pop al Minculbond.

da Il Fatto Quotidiano n°44 del 12 novembre 2009

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