di Alessandro Ancarani
Emilio Coveri combatte per una guerra che il suo amico Indro Montanelli definì «impossibile da vincere. Non ce la faremo mai in questo Paese codardo e ipocrita. Ma è una guerra che qualcuno doveva pur cominciare». Coveri, a capo dell’associazione Exit Italia, si batte da anni perché anche nel nostro Paese venga permessa «l’interruzione volontaria della propria sopravvivenza in condizioni fisiche terminali». Questo il titolo del progetto di legge che più volte ha tentato di proporre al nostro Parlamento. Ma la politica sembra ricordarsi del cosiddetto fine vita solo quando si trova di fronte all’Eluana di turno. Salvo poi far ripiombare tutto nel dimenticatoio. «Sono un amico di Beppino Englaro da tanti anni – spiega Coveri – e so quanto è stato costretto a soffrire solo perché mancava un foglio con sopra scritte le volontà della figlia: ho visto la gente sotto la clinica agitare bottigliette d’acqua gridandogli ‘Boia, fai morire tua figlia di sete’. È stata una vergogna.
Beppino aveva invitato Napolitano e Berlusconi a venire di persona per rendersi davvero conto di chi fosse Eluana, nessuno dei due ha accettato». Nel 1997 l’Italia è stata uno dei firmatari della Convenzione di Oviedo che contiene norme fondamentali, come il riconoscimento del testamento biologico, il no all’accanimento terapeutico e la regolamentazione del consenso informato.
Sono trascorsi 11 anni ma nessuno ha mai emanato i decreti attuativi per recepire i nuovi canoni su questioni tanto delicate. Per questo Coveri a combattere la sua guerra sui due versanti delle Alpi: a sud tentando di animare un dibattito sui temi etici narcotizzato ad arte; a nord aiutando tanti italiani a mettersi in contatto con le cliniche svizzere in cui il suicidio assistito è consentito dal 1942. Molti italiani avvertono la necessità di porre fine alla propria vita quando non hanno altre aspettative se non quelle di soffrire inchiodati a un letto. Coveri riceve telefonate quotidianamente da ogni parte d’Italia, circa 40 alla settimana. «A tutti dico un’unica cosa: non dovete perdere tempo. Per compiere il percorso che ha scelto, il malato terminale deve essere lucido e in grado di somministrarsi da solo il farmaco». Se manca una delle due condizioni tutto si blocca, gli svizzeri sono inflessibili. L’iter precedente il suicidio assistito è interamente proteso a far desistere il paziente dalle proprie intenzioni. «Il protocollo svizzero è molto rigido – continua Coveri – Anzitutto una commissione medica ministeriale accerta tramite le cartelle cliniche se esistano le effettive condizioni di malattia terminale. Tanti malati di mente chiedono di poter morire, ma le patologie mentali, anche giudicate incurabili, non vengono comprese».
Una volta avuto il via libera dalla commissione medica, il malato sceglie la data e quindi si reca in clinica. «Il medico per legge deve chiedere reiteratamente di desistere. E non lo fa con formule di circostanza, ma con appelli accorati. Il 30% dei pazienti desiste o decide di rimandare, l’altro 70% invece assume due pillole antiemetiche. Trascorrono altri dieci minuti mentre il medico avverte ancora: se cambi idea adesso sei ancora in tempo, ma dopo che avrai bevuto il medicinale non potrò più fare niente per te». Il pentobarbital viene preparato in un bicchiere e va bevuto. Entro un minuto e mezzo la persona cade in un sonno profondo. Qualche minuto più tardi insorge l’arresto cardiaco. Il suicidio assistito si differenzia dall’eutanasia perché in nessun caso a dare la morte può essere un soggetto diverso da colui che muore: se non si è in grado di bere da soli nessuno può fornire un aiuto, se non incorrendo nelle pene della dura legge svizzera. Dura è anche la legislazione nostrana che, non potendo impedire a chi vuol morire di recarsi in Svizzera, minaccia coloro che accompagnano il parente verso il fine vita. Il rischio è quello di essere accusati di concorso in omicidio volontario una volta rientrati a casa. Coveri guarda all’Italia: “Quella che si sta per approvare è solo una legge anti-Eluana. C’è chi pensa che la vita è sacra, io penso che la vita è mia. Dunque se credo non abbia senso soffrire oltre misura senza nessuna possibilità di guarigione, devo poter porre fine a quella che non è più un’esistenza dignitosa”.
da Il Fatto Quotidiano del 19 novembre 2009