Malitalia. Un reportage di Laura Aprati ed Enrico Fierro. Regia di Laura Aprati e Mario Tabassi.
Enrico Fierro e Laura Aprati firmano un libro e un documentario sulla criminalità dimenticata e l’Italia da non dimenticare.
di Malcom Pagani
Davanti al piccolo ingresso, tra i fichi in lontananza e il profumo d’Africa, il cimitero sembra qualcosa d’altro. Il luogo di un riposo più lieve di un’eterna sosta, un filare di viti sotto il quale riprendere forza, riflettere scossi dal vento, attendere in quiete il succedersi delle stagioni.
Leonardo Sciascia se ne andò vent’anni fa. Il 20 novembre, dopo aver discusso con i nipoti di Stevenson e Allan Poe, lasciando spazio e vittoria alla malattia, osservando la pioggia obliqua scendere per l’ultima volta prima di chiudere gli occhi.
Sulla lapide, a Racalmuto, la frase di un aristocratico francese: “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”. A futura memoria, a patto che, come ricordava Sciascia stesso, la memoria (e non era scontato) possedesse davvero un orizzonte. Con Malitalia (Rubbettino, 15 euro, libro più dvd) Laura Aprati ed Enrico Fierro non si concedono il lusso di dubitare e scendono con occhi, voce e curiosità, alle radici evolutive di una mafia che Sciascia, nonostante intuito e lungimiranza gli fossero amici non meno della scrittura, non aveva fatto in tempo a prevedere. Una criminalità dove come spiega con tono lontano dall’enfasi, un potenziale eroe sciasciano, un letterato con pistola e distintivo, il capo della squadra mobile di Trapani Giuseppe Linares: “Ogni raro spargimento di sangue, negli ultimi anni, è stato mirato”. Sparare non serve più. La storia sembra più semplice, ma in realtà si complica, con l’abbandono della ormai rassicurante e ingannevole iconografia coppola e lupara.
A ciascuno il suo e ai nuovi padroni, un controllo del territorio cui per esercitarsi non serve il piombo. In doppio petto, come un iguana pronto alla mimesi e all’evoluzione (anche tecnologica ) davanti al nemico, il mafioso del nuovo millennio manda i figli all’università e penetra nella falda della società in modo invisibile. Giorno dopo giorno, stando ben attenti a terrorizzare senza abbaiare alla luna. Andando dritti alla radice del dominio, vivendo alternativamente da uomini d’onore e topi pronti a nascondersi in tane sotto terra, bunker che puntellano l’Aspromonte, nascosti dall’impenetrabile vegetazione, come nell’Albania a sinistra della Cina di Enver Hoxha.
Per poter trionfare tra istituzioni sonnolente: “O vicine a una conclamata negligenza non distante dal dolo” come sottolinea Alberto Cisterna, magistrato della Direzione distrettuale antimafia, i nuovi mafiosi viaggiano, stringono alleanze, cercano sponde politiche, brandendo il potere economico come una clava e l’estorsione, “Il principale serbatoio di Camorra, Mafie e‘Ndrangheta” come afferma al di là di ogni ragionevole supposizione Rodolfo Ruperti, dirigente della mobile di Caserta, al pari di un ricatto costante che rade al suolo esistenze in gabbia, società malformate senza spazi di redenzione, comunità in ostaggio permanente. Il pizzo crea investimenti e il circolo poco virtuoso, nella terra shakespeariana dei Bidognetti e degli Schiavone, quasi non conosce interruzioni.
E’ un documentario prezioso, Malitalia. Gemma non verbosa, movimento nell’azione, odore della paura e dell’impunità tra i rovi inestricabili di un paese in decadenza e i nodi gordiani di una nazione che da Gobetti a oggi, si è inutilmente arrovellata su una coesione improbabile. Ci sono volti e urla, donne di boss pronte ad aggredire operatori e giornalisti, soldati straniati che cresciuti con la televisione non capiscono dialetti, nessi e circostanze di una tradizione arcaica che mantiene origini e patti di sangue dalla notte dei tempi, pentiti e collaboratori di giustizia emarginati, impavidi “no” che si pagano con l’esclusione e la vendetta.
C’è soprattutto il mestiere di giornalista capace di tornare alle motivazioni nobili, sfrondato da orpelli, vaniloqui e vanità, l’odore del pistard che fiuta il filone giusto e ci si butta senza calcoli, al riparo di macchine sporche, piene di cartoni di cibo rubato al mestiere, rese irrespirabili dai chilometri e dal fumo. Siani, Nozza, Fierro. Figli sparsi per il mondo come pezzi di carta, pacchetti con dromedari da decrittare come compagni di viaggio, centinaia di sigarette, barba incolta, impermeabili da noir, occhiali da sole, battuta fulminante, cinismo per proteggersi dalle emozioni e cuore grande, da far pulsare fuori dal taschino, all’occorrenza, perché dietro gli specchi, la vita è dura. In trent’anni a contatto col malaffare, dalla Campania di Cutolo al presente non meno fosco, Fierro ha raccontato l’Italia. Quella stanziale e quella agognata dai disperati in esilio verso le coste pugliesi. Il terremoto irpino e quello abruzzese, la politica, i ministri compromessi e la caduta di un sistema abile e svelto nel cancellare la palingenesi e riformarsi indossando fogge nuove di taglio antico. Dalla lezione superba di don Ciotti mutuata da Rosario Livatino: “Non ci sarà chiesto se siamo stati credenti ma credibili”, alle parole di Dacia Maraini e dei tanti cacciatori con la divisa, in costante battuta contro indifferenza e silenzio, “Malitalia” accompagna (con una musica adeguata a scandirne la progressiva discesa negli inferi), lo spettatore oltre i lustrini di un’epoca narcotizzata.
Tra i tassi di usura al dieci per cento mensile, “il monolite indissolubile” (sempre Linares) perpetua se stesso. Lega per sempre destini e disperazioni, offre protezione pelosa, minaccia. Non diversamente dall’immortale epopea mafiosa, da Ellis Island a Corleone, perché in fondo, al di là del linguaggio frammentato utilizzato per non farsi intercettare, Calabria, Sicilia e Campania, soffrono di un’affezione dalle ascendenzeprimordiali.Undoloreche non si lava, anche se i figli crescono e le mamme imbiancano.
Di un’ortodossia che legando uomini di malavita e borghesi, nuovi ricchi e apparati della macchina amministrativa, proclama una resa fittizia e intanto continua a fare affari. Sempre più ricchi, sempre più “raffinati”. Nascono nuovi sottoinsiemi e poteri rimodellati, figure venerate dai piccoli boss di provincia, come quella impalpabile del presunto neo capo di “Cosa Nostra”, il trapanese Matteo Messina Denaro, “l’ultimo”, come scritto da un ammirato writer sui muri della città siciliana, e politiche neokeynesiane in cui i soldi devono esserci e fluttuare al riparo da lacci e restrizioni, a prescindere dalla provenienza, senza alcuno scrupolo morale sull’inquinamento complessivo di un sistema drogato alla nascita.
Così, mentre si piange Fortugno e i ragazzi di Locri e dei 42 comuni della zona, impegnati a chiedere una prospettiva diversa, “non vengono fatti lavorare”, gli sforzi e il desiderio di riemergere della parte sana della comunità, somigliano a una “gurfata”. Sbuffi di vento incapaci di far crollare le connivenze. Chi nel potere politico prova a ribellarsi, sa dopo l’omicidio di Francesco il medico, che la regola d’ingaggio è cambiata.
Chi si mette in mezzo muore e forse, nella constatazione laconica, il ritorno al passato è più evidente di qualunque immagine.
da Il Fatto Quotidiano del 19 novembre 2009