Per lui è solo un atto di carità cristiana. Un gesto umanitario per dare un po’ di conforto a chi soffre. Per gli investigatori, invece, potrebbe essere una sorta di messaggio. O almeno potrebbe essere colto dalla mafia come tale. Come l’ultimo, o il penultimo, segnale nella lunga presunta trattativa tra Cosa Nostra e lo Stato cominciata nel 1992-93 e mai interrotta. Comunque stiano le cose un fatto è certo: fa effetto ascoltare dai microni di Radio Radicale un esponente di peso del Pdl come il neo-parlamentare Renato Farina, chiedersi se davvero il 41 bis, il cosiddetto carcere duro, è una forma di tortura. E fa ancora più effetto pensare che le sue dichiarazioni, chiuse con la proposta di istituire una commissione internazionale sulla situazione dei boss in prigione, sia arrivata a ferragosto, davanti alle porte del carcere milanese di Opera.
Lì dentro, ospitati in celle singole controllate giorno e notte, ci sono ben 82 capi-mafia. E assieme al più celebre di tutti, Totò Riina, c’è anche Giuseppe Graviano, il capo della famiglia mafiosa di Brancaccio, che, secondo il pentito Gaspare Spatuzza, avrebbe concluso intorno al Natale 1993 una sorta di accordo politico con Silvio Berlusconi. Farina, è vero, rispetto al 41 bis ha un approccio problematico. E nella sua intervista fornisce un particolare importante: dice che buona parte dei detenuti non appena ha capito chi era e soprattutto in che partito militava, ha mostrato “una furia” che lo ha “preoccupato”. Ce l’avevano con lui, con il ministro della Giustizia Angelino Alfano e con Berlusconi.
Resta però una singolare coincidenza: la visita ispettiva ad Opera dell’ex giornalista, radiato dall’Ordine per il denaro ricevuto dai servizi segreti militari, avviene subito dopo i primi interrogatori di Giuseppe Graviano e di suo fratello Filippo. Lunghi faccia a faccia con i magistrati durante i quali i due boss hanno più volte detto di “rispettare” la scelta di Spatuzza . Ma hanno aggiunto che stare al 41 bis è come stare “a Guantanamo”: “Ho la luce accesa giorno e notte e da quattro mesi aspetto una visita per un sospetto di tumore” ha detto Giuseppe. Il dubbio, insomma, che il dialogo tra la politica e la mafia sia ancora in corso, c’è. Pure l’Aisi (il servizio segreto interno), nelle sue ultimi relazioni sullo stato della criminalità organizzata in Italia, spiega che nelle carceri i boss mostrano segni d’irrequietezza e d’impazienza. E, secondo quanto risulta a Il Fatto Quotidiano, sottolinea proprio il ruolo dei fratelli Graviano che sarebbero alla ricerca di una soluzione per il 41 bis.
Detto in altre parole: l’impressione è di trovarsi di fronte a una sorta di grande ricatto. O fate qualcosa, o rispettate i patti – comunica la mafia – o noi cominciamo a far sapere come sono andate realmente le cose negli anni delle stragi.
I Graviano, del resto, hanno già tentato operazioni del genere. Nel 2002 erano stati proprio loro a dare il via a una singolare corrispondenza tra boss detenuti (spesso condannati proprio per le bombe ai monumenti) ricca di ambigui riferimenti alla “cappella Sistina”, al “museo egizio di Torino”, al Milan (la squadra del presidente del consiglio Silvio Berlusconi) e alla Formula Uno, sempre indicata da chi scrive con la sigla “F.I”: le iniziali di Forza Italia. Allora accanto alle lettere, tutte ovviamente lette dalla censura e finite in corposi rapporti dello Sco (Servizio Centrale operativo) della Polizia, c’erano stati pubblici proclami di boss del calibro di Luchino Bagarella che il 12 luglio del 2002, in aula, aveva accusato la politica di aver “strumentalizzato” i detenuti.
Così il Sisde, all’epoca diretto dal generale Mario Mori, aveva lanciato l’allarme. Aveva annunciato con un’informativa segreta a Palazzo Chigi, di aver appreso da “Attendibili fonti fiduciarie l’esistenza di un progetto di aggressione di Cosa Nostra che avrà inizio con azioni in toto non percettibili dall’opinione pubblica fino a raggiungere toni manifesti, con la commissione, in un secondo momento, di azioni eclatanti”. Nel mirino, secondo gli 007, c’erano Dell’Utri, l’avvocato Cesare Previti e una molti avvocati meridionali (per lo più parlamentari). E a tutti loro fu data una scorta. Oggi la situazione è diversa. A far paura non sono più le armi della mafia, ma le parole. Certo in Cosa Nostra c’è chi può pensare (al contrario di quanto sostiene il ministro dell’Interno, Roberto Maroni) che la riforma della legge sul sequestro dei beni appena introdotta in finanziaria, sia una buona notizia. O che la due giorni di sciopero degli avvocati, che protestano anche contro il 41 bis, sia il sintomo di qualcosa che si sta muovendo. Ma forse è tardi. Troppo tardi. Perchè, come diceva Leonardo Sciascia, “Tutti i nodi vengono al pettine. Se c’è il pettine”.
da Il Fatto Quotidiano del 28 novembre 2009