E per il Vaticano è “un colpo all’integrazione”

di Marco Politi

Irritazione e disagio emergono dall’Europa civile dopo il referendum della vergogna, che in Svizzera ha proibito la costruzione di minareti. Hanno vinto gli xenofobi, che inalberavano manifesti con donne pesantemente velate e minareti in forma di missili. Il 57 per cento degli elettori elvetici si è schierato per il divieto.
“Scioccato” è il ministro degli Esteri francese Kouchner, turbato il Consiglio d’Europa, per Fini è un “formidabile regalo” all’islamismo radicale, per il presidente dell’Ue Bildt è un “segnale negativo”. In Vaticano il presidente del Consiglio pontificio per i Migranti, monsignor Vegliò, condivide la posizione dei vescovi svizzeri: “duro colpo alla libertà religiosa e all’integrazione”. L’Osservatore equipara il veto alla proibizione dei crocifissi. Lo stesso governo svizzero tenta di tranquillizzare invano i musulmani residenti nella Confederazione , dove rimarranno le quattro moschee con minareti.

Nel panorama spicca la provocazione della Lega. “Ora bisogna mettere la croce nel Tricolore”, ha esclamato il viceministro Castelli. Una boutade surreale se l’idiozia aggressiva leghista – che un giorno vuole buttare nel cesso la bandiera nazionale, un altro è ansioso di insignirla della croce e ad ogni buon conto ogni tanto fa marciare propri esponenti con maiali mandati a orinare su terreni previsti per la costruzione di moschee – non rispondesse sempre ad un obiettivo preciso: scardinare la comunità nazionale, frenare l’integrazione fra gli italiani e gli “altri”.

Troppo facile, però, indignarsi solo per il voto svizzero. La questione oggi è decidere come affrontare l’immigrazione e l’integrazione dei musulmani che abitano e lavorano in Italia. Intanto l’islam è da noi la seconda religione con un milione e mezzo di aderenti. Qualche centinaio di migliaia di giovani appartengono già alla seconda generazione. Tra l’altro, nelle province del voto leghista, gli slogan xenofobi si accompagnano notoriamente ad un intenso impiego di manodopera extracomunitaria. Perché il “negro” in fabbrica o nelle cucine dei ristoranti va bene, ma come essere umano titolare di diritti dovrebbe andarsene “ai paesi suoi”. Esattamente ciò che non avverrà come non è avvenuto negli altri paesi d’Europa.

Omar Jibril, ventiseienne milanese di padre egiziano e mamma sarda e presidente dell’Associazione Giovani Musulmani, sospira dopo il referendum svizzero: “Come si può votare sui diritti di una minoranza? É inaccettabile”. Poi spiega: “Non siamo qui per caso, se qualcuno pensa che chi è arrivato si fermi per fare soldi e poi andarsene, sbaglia”. Jibril, oggi a Torino (Circolo dei Lettori) protagonista di un convegno sulla seconda generazione islamica, soggiunge: “Siamo giovani come gli altri, chiediamo di poter professare la nostra religione e al tempo stesso ci sentiamo coinvolti quando si parla della Finanziaria, della Fiat ad Arese o della disoccupazione. Vogliamo contribuire alla crescita del Paese. Quando ci sono i mondiali, cantiamo l’inno di Mameli con i calciatori”.

Janiki Cingoli, direttore del Centro italiano per il Medio Oriente (uno degli organizzatori del convegno di Torino) sottolinea che l’islam non è qualcosa di esterno, ma è parte della storia europea, ne è “elemento costitutivo, insieme alle più antiche radici cristiane, ebraiche ed anche laiche”. Giustamente Cingoli sottolinea che non si tratta soltanto di parlare di diritti e doveri, ma in primo luogo di individuare un “accesso guidato alla cittadinanza”. Perché il fenomeno dell’immigrazione abbandonato a se stesso non può che alimentare le spinte negative di chi lo considera una minaccia.

L’Italia è in stand-by. Nel precendente governo Berlusconi l’ex democristiano Pisanu, ministro degli Interni, aveva messo mano ad una Consulta islamica. Il suo omologo Amato, nell’ultimo governo Prodi, aveva continuato formando anche una Consulta giovanile interreligiosa. Primo passo di un percorso che avrebbe dovuto portare ad una rappresentanza dell’Islam italiano. Così come esiste in Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna. Si stava inoltre aggregando, sotto gli auspici di Amato, una Federazione dell’Islam italiano con la partecipazione della Coreis, della Lega islamica mondiale in Italia, dell’Associazione delle donne marocchine, del Centro islamico culturale che gestisce la Grande Moschea di Roma. Il ministro Maroni ha invece congelato tutto. Non ha più convocato la Consulta né preso iniziative. Giugno scorso i membri della futura “Federazione” gli hanno scritto ufficialmente per riprendere il confronto, il ministro degli Interni non ha nemmeno risposto.

É più facile lasciare che nei comizi la Lega agiti il vessillo dell’identità cristiana e intanto non discutere concretamente di rappresentanza, di costruzione delle moschee, di formazione degli imam, di assistenza ai fedeli musulmani negli ospedali e nelle carceri. Paolo VI aveva favorito la nascita della Grande Moschea di Roma. Gli odierni cristiani senza Cristo – che amano riempirsi la bocca del vecchio parere del Consiglio di Stato secondo cui la croce è simbolo religioso in chiesa e simbolo “altamente educativo” in ambienti laici – lasciano che i musulmani d’Italia, adoratori dello stesso Dio di Abramo, preghino per strada o in scantinati, garage, penosi locali di fortuna. Censire le settecento cosiddette ‘case di preghiera’ musulmane in Italia è censire una vergogna. Ma fare incancrenire la situazione è utilissimo per agitare il fondamentalismo. Così i conti tornano.

da Il Fatto Quotidiano dell’1 dicembre

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