L’approvazione della Finanziaria in commissione bilancio ha fatto scattare l’allarme: – "I tagli all’editoria previsti dalla Finanziaria costituiscono un’operazione di regime con cui si vuole tappare la bocca a quei tanti, piccoli giornali che ancora esprimono voci critiche della società”, è il grido di dolore di Gianni Montesano, direttore della Rinascita della sinistra (settimanale del Pdci sconosciuto alle masse).
La questione è semplice: nel 2008 Giulio Tremonti ha cambiato le regole per il finanziamento pubblico all’editoria. Come succede poi in Italia, le nuove regole sono state congelate per placare gli scontenti. E ora, con la Finanziaria 2010, dovrebbero entrare in vigore. I giornali saranno finanziati con un fondo unico, ma perderanno il “diritto soggettivo”.
Tradotto: il Gazzettino del Quartiere, se ne ha diritto, può attingere al fondo per la quota che gli compete, finché il fondo non si esaurisce. Ma resta un margine di incertezza sulla disponibilità e, soprattutto, gli editori non possono iscriverli a bilancio. Conseguenza: i conti dei giornali diventano all’improvviso fragilissimi e le banche faranno molte più storie a concedere quei crediti che sono vitali per la sopravvivenza. Tanto che, dice il sindacato di giornalisti, è a rischio la sopravvivenza di cento testate e Pd, parte degli ex di An e la Lega rumoreggiano. Per una parte della maggioranza, e per Silvio Berlusconi nello specifico, c’è il piacevole effetto collaterale di mettere in difficoltà (o di far chiudere) testate sgradite o poco amate come Il Secolo d’Italia, che appoggia Gianfranco Fini, Avvenire, il Manifesto, ecc.
Però, come ha denunciato anche il Fatto, ogni anno si sprecano milioni di euro per finanziare testate inesistenti o lette soltanto dai propri redattori, soldi distribuiti con un meccanismo opaco che assegna risorse a organi di stampa di partiti inesistenti o a cooperative che hanno alle spalle editori forti (come la famiglia Angelucci, per esempio). Qualcuno obietta che certi giornali, come Il Secolo o la Padania, servono al dibattito delle idee. Il contribuente può sempre obiettare: “Perché devono usare le mie tasse per sostenere il giornale dei leghisti o un ‘quotidiano comunista’, come si definisce il Manifesto?”.
La vicenda di questi giorni rende evidente il problema: finché i finanziamenti ai giornali vengono assegnati in modo così discrezionale, senza regole chiare e senza scelte politiche nette (per dirne una: si finanziano i quotidiani perché sono una parte dell’attività politica o perché sono uno strumento essenziale del dibattito democratico?) ci sarà sempre qualche scontento.
Che fare, dunque? Ci sono almeno tre soluzioni, di cui però nessuno osa parlare apertamente. La prima è cancellare i finanziamenti pubblici all’editoria (nel 2008, quelli relativi al 2007 erano oltre 200 milioni di euro). La seconda decidere che si finanziano i giornali in quanto espressione delle idee dei partiti, quindi tanto vale dare i soldi direttamente a loro, ai partiti. Terza ipotesi: quei soldi si spendono per “aiuti” automatici, come quelli già in essere, tipo un’Iva più bassa rispetto ad altri prodotti e parziali rimborsi degli abbonamenti postali, così si incentiva il settore. Poi tutti competono nel libero mercato, ma con costi più bassi. E vinca il migliore. Ma la politica preferisce tenere il suo potere discrezionale e assicurarsi che qualche centinaia di giornalisti stia sempre con il fiato sospeso, sapendo che il proprio posto di lavoro e lo stipendio sono a rischio.