di Gianfranco Pasquino
Le accuse nei confronti del sindaco di Bologna Delbono sono molte e pesantissime: abuso d’ufficio, peculato, truffa aggravata (perché pubblico ufficiale ai tempi in cui viaggiava allegramente per il mondo con la sua fidanzata).
Naturalmente, come di solito dicono gli esponenti del Partito democratico quando tocca a qualche politico del centrodestra, “lasciamo che la giustizia faccia il suo corso”.
In verità, qualcun altro nel Pd ha già fatto ricorso all’altra classica espressione ipocrita: “Giustizia ad orologeria” poiché si sta avviando la campagna elettorale per le elezioni regionali.
Difesa preventiva del presidente della regione e già autorevole sponsor di Delbono, Vasco Errani, alla ricerca del suo terzo irrituale mandato: “Non influenzerà l’esito”.
Certo che no, il blocco di potere del Pd mica si lascia sgretolare da qualche scandaletto, anche se l’attuale appare davvero molto grave.
Spinto in campo dalla sua ambizione e dalla necessità dei dirigenti del Pd bolognese di ovviare all’errore commesso, ma mai apertamente riconosciuto, con Cofferati, Delbono ricevette subito l’appoggio preventivo (ovvero prima che le primarie ne facessero un candidato effettivo) di Bersani e di Zangheri e poi quello giubilante di Prodi (a suo tempo molto rallegrato anche dalla candidatura di Cofferati) e del suo loquacissimo staff.
Infine, incassò il benemerito baldanzoso sostegno di Repubblica di Bologna.
Allorquando il candidato del centrodestra Cazzola sollevò in campagna elettorale il problema delle numerose, frequenti e lunghe vacanze della coppia Delbono–Gracchi, fu lui a venire attaccato, con sdegno perbenista, e i giornalisti bolognesi si dimenticarono della nobile tradizione dell’investigazione almeno sui fatti. No, Bob Woodward e Carl Bernstein non abitano a Bologna.
Cosicché quello che poteva essere il Cinziagate già otto mesi fa sparì dalle pagine dei giornali, non influenzò l’esito delle elezioni, giunse fino alla quasi archiviazione, ma… cambiò il procuratore generale, le indagini furono riaperte e il vaso di Pandora (pardon, di Cinzia) si è rivelato ricchissimo, generosissimo di fatti, date e dati, in attesa dei sacrosanti estratti conto di qualche carta di credito, della regione e personale dell’allora assessore e vicepresidente Delbono.
Si scoprì anche, e questo dovrebbe fare piacere sia a tutto il centrodestra sia ai saccenti garantisti del Partito democratico e dintorni, che le toghe non sono tutte rosse e che a Bologna l’influenza dell’ambiente ex Pci e ex Ds non è più soffocante.
In altri luoghi, se fosse toccata a un sindaco di centrodestra una roba delle dimensioni che vanno emergendo, la parola dimissioni sarebbe stata non pronunciata, ma urlata, scritta sui muri, esposta su cartelli in consiglio comunale, soprattutto dalla rigorosissima Italia dei Valori.
Nelle file del Partito democratico di Bologna, già molto attivamente provato dalla necessità di aggiornamento degli organigrammi locali, ovvero a decidere chi, magari eletto pochi mesi fa in comune, deve fare il grande balzo (in termini di carriera e di guadagno) in regione, alla faccia della rappresentanza dei suoi elettori di giugno? Chi deve andare ad occupare la delicata, ma importante, e adesso scottante, poltrona di segretario provinciale?
Insomma, questa faccenda di Delbono era proprio meglio che finisse sotto il tappeto, anche per evitare che qualcuno, se il blocco di potere targato Pd si sgretola, finisca per doversi assumere le sue responsabilità nella malaugurata e disastrosa scelta del sindaco (la cui immagine fu sempre alquanto opaca, e il cui stile di lavoro lascia molto a desiderare).
Finalmente, i giornalisti sono balzati sull’argomento che appare molto promettente, densissimo di sviluppi, quasi emblematico. La mancata alternanza, avrebbero dovuto impararlo tutti già nel periodo del pentapartito, apre la strada all’arroganza del potere e a un inebriante senso di impunità (condivisa).
Gli avversari non vincono mai; possiamo fare quello che vogliamo; nessuno riuscirà ad andare a vedere le carte. Sì, a Bologna c’è stato un forse troppo breve, ma non troppo doloroso, interludio di Guazzaloca, non abbastanza per scombussolare i poteri locali che, professionisti importanti e organizzazioni, si sono subito riposizionati nella grande sfera di influenza e di provvigioni occupata e garantita dal Pd, tenendone fuori gli sfidanti di qualsiasi tipo, ad esempio, alla Ignazio Marino.
Adesso, sembrerebbe probabilmente venuto il tempo di dare un’occhiata al codice etico del Partito democratico. Qualche volta I conflitti di interesse si nascondono per esempio nel cumulo delle cariche oppure nell’utilizzo spregiudicato di una carica per conseguirne una superiore, come status e indennità. Si creano in questo modo anche le famigerate cordate, una specialità non soltanto democristiana.
Qualche volta, infine, chi viene, non “lambito”, ma travolto da accuse gravissime, prima sdegnosamente rifiutate con l’arroganza del silenzio, dovrebbe sentire il dovere morale di lasciare la carica per difendersi, come molti affermano, quando tocca agli altri, più liberamente e per non fare sprofondare nell’imbarazzo il partito che è all’origine della sua carriera e dei suoi privilegi.
Poiché la politica ha bisogno di un’etica, siano i politici a dimostrare con il loro apprezzabile esempio personale che sanno mettercela questa etica e osservarla scrupolosamente.
da il Fatto Quotidiano del 23 gennaio