La repressione di Cosa nostra è vigorosa, continua, efficace e puntuale. E però chi denuncia il pizzo entra a far parte di una piccola, fragile, per quanto coraggiosa e generosa, minoranza. Anche se rispetto al recente passato il trend è senz’altro positivo, cosa fino a pochi anni fa inimmaginabile, qualcosa continua a non andare. C’è qualcosa di sbagliato, ad esempio, nei meccanismi attraverso i quali si perpetua la classe dirigente della Sicilia. La nebbia è fitta, ma ce ne accorgiamo solo quando “sbattiamo la faccia”, e anche allora ne facciamo solo una questione penale, che va circoscritta, accertata… e fino a quando un giudice non ci dice che ci siamo rotti la faccia, praticamente non è successo niente. Letteralmente, non succede nulla.

La vicenda di Totò Cuffaro, che la Procura di Palermo intende far processare di nuovo, stavolta per concorso esterno in associazione mafiosa, presenta anche alcuni personaggi e alcuni fatti, che con il codice penale – è già accertato – non hanno nulla a che fare. Ma socialmente hanno delle responsabilità. E bisogna gettare una luce su questi fatti, per far diradare la nebbia.

Paolo Borsellino diceva: bisogna distinguere la responsabilità penale da quella politica e sociale. Un politico potrebbe risultare penalmente non responsabile, ma ciò non toglie che possano esserci altre responsabilità che dovrebbero comunque esser sanzionate: dai partiti, dagli ordini professionali, per esempio. E allora proviamo a fare un po’ di luce: magari, in futuro, eviteremo di sfigurare ulteriormente il volto della Sicilia.

Nemo tenetur se detegere, ovvero nessuno può essere costretto a danneggiare se stesso, si può mentire per evitare il peggio: è quel che ha fatto l’onorevole e avvocato Salvino Caputo. È stato imputato di falsa di testimonianza, ma è stato assolto, perché nel procedimento penale è possibile mentire per evitare di autoaccusarsi di reati più gravi, in questo caso di favoreggiamento. Se avesse ammesso di avere mentito o di avere favorito Cuffaro nel processo Talpe, cosa che secondo il giudice avvenne, «avrebbe danneggiato in modo evidente e definitivo» il proprio prestigio e quello dell’Istituzione che rappresentava, il Comune di Monreale.

I commercianti vittime del pizzo, che non confermano le prove schiaccianti a carico dei mafiosi, raccolte dalle forze dell’ordine, rischiano seriamente di essere condannati per favoreggiamento a Cosa nostra, mentre l’avvocato Caputo può permettersi di testimoniare il falso in ragione di una finta integrità morale e professionale da salvaguardare. Nel corso del procedimento penale si è avvalso di un suo diritto, ma fuori dal tribunale è venuto meno al suo dovere sociale di uomo politico, tanto non c’è nessuno che lo stigmatizza. Quasi ogni giorno, fra l’altro, Caputo interviene contro la mafia, elogia le forze dell’ordine, parla di beni confiscati mentre in aula ha mentito impunemente su questioni riguardanti proprio un processo per fatti e ipotesi di reato di mafia.

Andiamo ad un altro avvocato-politico, l’ex consigliere provinciale di Forza Italia Salvo Priola, ex legale del boss Giuseppe Guttadauro: grazie all’interessato aiuto del suo cliente, Priola cercò di ottenere un posto nelle liste dell’ex CDU, oggi UDC, in occasione di diverse elezioni, anche nazionali. Cuffaro però non concordò, Guttadauro ne prese atto e convinse Priola a fare come voleva Totò. È tutto documentato dalle intercettazioni ambientali: il boss fa quel che vuole il politico e l’avvocato quel che vuole il boss, cioè non candidarsi.

La Procura, non avendo sufficienti elementi per procedere penalmente, ha chiesto e ottenuto l’archiviazione della posizione di Priola. Ritenendo però provata l’esistenza di suoi rapporti di “amicizia”, “vicinanza” e “disponibilità” nei confronti di mafiosi come Guttadauro e il boss Greco, ha inviato al consiglio dell’Ordine un dettagliato dossier, perché questo valutasse l’eventuale adozione di provvedimenti disciplinari. Che succede, però? Non solo Priola non è stato sanzionato, ma è stato pure eletto presidente della Camera penale “Conca d’Oro”.

E Cuffaro? Durante il processo Talpe ha riferito in aula di aver conosciuto e frequentato i medici Salvatore Aragona e Vincenzo Greco. I due, all’epoca dei fatti (2001), avevano già condanne definitive alle spalle. Il primo per concorso esterno in associazione mafiosa, per aver falsificato le cartelle cliniche del boss Enzo Brusca, cercando di aiutarlo a sfuggire alla giustizia, e il secondo per favoreggiamento aggravato dall’agevolazione di Cosa Nostra, per aver curato il boss Salvatore Grigoli, il killer di Don Puglisi.

Ma l’ex presidente della Regione, in aula, di Greco, ebbe a dire: “Sapevo che aveva avuto dei problemi di giustizia, che aveva pagato le sue colpe e che era tornato a fare il medico. Ho sempre avuto culturalmente l’idea che la gente può sbagliare, paga il prezzo alla giustizia e torna a fare il suo lavoro, è un dato che mi appartiene culturalmente. L’avevo fatto anche nei confronti del dottor Aragona […] Sapevo che c’era qualche problema legato alla mafia […] Sapevo che era stato condannato e che aveva espiato la sua colpa […] Non mi appassiona il reato con cui vengono condannate le persone”.

Pietas cristiana? Non si direbbe. Cuffaro sarà credente, ma non risulta credibile, non soltanto come imputato, ma neanche come politico responsabile. Anche se in appello o in Cassazione dovesse essere assolto dal punto di vista penale, socialmente è già giudicabile: spende una montagna di soldi pubblici per i cartelli “la mafia fa schifo” e poi non sa nemmeno stare alla larga dallo schifo che assedia la politica! E nel frattempo è stato pure condannato in primo grado per avere favorito, attraverso l’altro medico e politico Mimmo Miceli (oggi pure lui condannato, anche in appello, per concorso esterno in associazione mafiosa) il boss di Brancaccio Guttadauro, l’erede dei Graviano, quelli che ordinarono l’omicidio di Padre Puglisi, indicati come molto vicini a un altro senatore sotto processo…

Ma questa è un’altra storia. La nostra piccola storia di resistenza va comunque avanti, accanto a ciascuna storia di dignitosa opposizione al racket delle estorsioni mafiose, dalla strada ai processi, come sta a testimoniare anche il processo chiamato Addiopizzo. Ma se non sapremo diradare la nebbia, non sarà mai possibile vedere un luminoso futuro. Se dalla classe politica non proverranno modelli di comportamento esemplari non ci si potrà aspettare da parte degli operatori economici denunce collettive contro il fenomeno del racket dell’estorsioni mafiose. A ciascuno le proprie responsabilità.

Comitato Addiopizzo

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