La sconfitta del lìder Maximo mette in crisi la sua realpolitik fondata sul gioco di Palazzo
Chissà quanto deve essergli costato al lìder maximo, ieri, dopo la vittoria a valanga di Nichi Vendola, vergare quel comunicato apparentemente anodino, e in realtà amarissimo (almeno per lui): “La larga vittoria di Vendola nelle elezioni primarie del centrosinistra pugliese – spiegava dopo la scoppola il presidente di ItalianiEuropei – conferma il legame del presidente della nostra regione con tanta parte dell’elettorato del centrosinistra, compresi gli elettori del Pd“. Sublime.
Voltafaccia doloroso. Chissà quanto deve essergli costato, dopo sette giorni passati a combattere ventre a terra in Puglia contro Nichi, dopo le decine di comizi e le centinaia di telefonate, dopo le dichiarazioni roboanti, dopo aver gridato quello slogan-tormentone su tutte le piazze: “Abbiamo il dovere di difendere Nichi Vendola da se stesso!” (che ora si potrebbe tranquillamente applicare a lui).
“Non ho mai perso un’elezione!”, assicurava spavaldo con una certa spensierata approssimazione (che “dimenticava”, tanto per fare un esempio, le regionali che gli costarono Palazzo Chigi).Es ubito dopo aggiungeva: “Se Vendola vince le primarie perderà le secondarie!”.
Adesso è quasi divertente leggere il suo sermoncino, unitario ed encomiastico, indietro tutta compagni: “Ora il Pd – spiega come se non avesse mai detto tutto quello che ha detto – ritrovi la sua unità nello sforzo di costruire intorno al candidato Vendola la convergenza più ampia possibile e di rafforzare l’ispirazione riformista della nostra proposta di governo”. Parole simili a quelle di un altro convertito delle primarie, quel Michele Emiliano che due settimane fa diceva: “Nichi è un traditore!”, e che ieri salmodiava: “Vendola non ha dato una lezione a Boccia, ma a tutto il Pd” (ovvero anche a lui?).
La realpolitik d’abord. Però, se si prova a leggere questa ennesima sconfitta del dalemismo presi dalla lente dell’emotività o della febbre mediatica, si rischia di non capirne la portata. Per lungo tempo l’ex ministro degli Esteri aveva rappresentato l’incarnazione di un’idea antichissima e persino razionale della politica.
L’apologia della realpolitik, l’elevazione dell’iperrealismo pessimista a dogma, la necessità della manovra di corridoio non come compromesso di bassa lega, ma come sublimazione delle irrevocabili leggi dettate dalla scienza machiavellica. Il dalemismo non è stato un incidente della storia, ma la sublimazione di un mondo, un modo di vedere le cose.
Dalemismo tolemaico. Da ieri, dopo essere stato sconfitto nella sua Gallipoli per 800 a 200 (e nella Fasano del suo epigono Nicola Latorre con uno stacco ancora più netto), D’Alema dovrebbe avere il coraggio di rivedere le sue convinzioni tolemaiche: non è più la politica italiana che deve girare intorno alle certezze del lìder maximo, ma lui che deve capire che è giunto il momento di un passo indietro.
Sabina Guzzanti, nelle sue indimenticabili imitazioni lo raffigurava sempre intento a tessere grandi disegni, strategie, accordi, i cosiddetti “dalemoni”. E lui, che nella sua prima passione pugliese non indossava mai i jeans perché troppo pop, che passava ore a giocare a Risiko e spezzava i tappi di bottiglia con le mani per conquistarsi il nomignolo epico di “Spezza-ferro”, sotto sotto ha sempre gradito questo riconoscimento.
Fu “un dalemone” l’operazione che portò alla caduta di Prodi, aperta da un vero e proprio discorso di metodo a Gargonza (fece indignare Umberto Eco) all’insegna dello slogan: “Prima i partiti”.
Fu un dalemone la cattedrale incompiuta della Bicamerale. E’ stato un dalemone il tentativo di usare Palazzo Chigi come piedistallo per costruire (come scrivevano i suoi “Lothar”) una leadership moderna e personale di tipo blairiano. Un lavoro paziente doveva portarlo alla presidenza della Camera (dove invece si piazzò Fausto Bertinotti) e un altrettanto meticoloso disegno doveva spalancargli le porte del Quirinale (dove invece Veltroni piazzò Giorgio Napolitano).
Nulla di tutto questo è riuscito: se si leggesse la carriera di D’Alema con gli occhi della realpolitik che lui voleva imporre alla Puglia, si dovrebbe registrare un cumulo di fiaschi. Ciò che resterà del “dalemismo reale”, paradossalmente è la scrittura quasi letteraria di un personaggio affascinante e drammatico, un carisma algido ma innegabile, un combattente indefesso, ma molto vicino alla dimensione fantastica del don Chisciotte di Cervantes.
La disgrazia (o la fortuna) di D’Alema, oggi, è l’essersi circondato da una setta di adoratori inventivi che lo seguirebbero anche nelle fiamme – i lothar – ma che non lo hanno preservato da se stesso. Solo un mese fa D’Alema si misurava i panni del ministero degli Esteri europeo, ora ripiega mestamente sulla poltrona del Copasir, che per lui è la caricatura di un incarico istituzionale, la parodia di una carriera.
Certo la Commissione di controllo sui servizi garantisce l’auto con il lampeggiatore blu, la vivificazione del titolo onorifico di “presidente” (che nella politica italiana non si nega nemmeno ai peones dei consigli comunali), l’ufficio e lo staff di quattro collaboratori a contratto.
Chi ha amato la linearità del pensiero dalemiano anche quando non ne condivideva una virgola, le battute salaci (“Le bugie hanno le gambe corte anche se portano i tacchi”), le definizioni folgoranti (“I cacicchi”, “L’inciucio”, “i flaccidi imbroglioni Prodi e Veltroni”), gli origami, il foot foot che faceva impazzire Striscia, le partite di Tetris a L’Unità e le regate da capitano coraggioso sul suo Ikarus, resta come deluso, da questa ricerca di un fondo pensione di Palazzo.
A Federico Geremicca, alla vigilia del voto pugliese, quando i sondaggi già annunciavano la débâcle consegnava parole scaramantiche: “Immagino già le sciocchezze che scriveranno: ‘La fine del dalemismo’, ‘la sconfitta del re di Puglia’, ‘il declino di D’Alema’. Sono anni che aspettano di poterlo dire”.
Invece noi de il Fatto – anime candide – non ci avevamo pensato. E’ stato lui a darci l’idea: sempre brillante, se non altro, nello scriversi l’epitaffio. A L’Espresso D’Alema, con piglio neo-andreottiano disse: “La sinistra è un male che solo l’esistenza della destra rende sopportabile”. Se Vendola ha un merito, è quello di aver dimostrato che è un bellissimo gioco di parole. Ma non è vero.
Da il Fatto Quotidiano del 26 gennaio