Licenziamenti ritirati, gli operai scendono dal tetto. Racconto di una città deturpata e senza lavoro

di Corrado Formigli

L’hanno storpiato proprio bene questo posto che aveva ogni ben di Dio. Il paese antico, il porto, il belvedere sul golfo. I pescherecci sotto costa tirano le reti.

Era un paradiso. Con le spalle al mostro sembra una cartolina. Poi mi giro e ce l’ho davanti. La Fiat di Termini è un’altra Italsider, uno sfregio ai piedi delle Madonie. Lungo la litoranea le macchine delle tute blu posteggiate, da lontano un fuoco acceso nel bidone. Dallo skyline osceno sbuca, dentro il perimetro Fiat, un parallelepipedo giallo alto cinque piani. Sopra, sul tetto, uomini in piedi. Uno penzola con le gambe nel vuoto, quasi a volersi buttare giù.
Sono ombre cinesi, silhouette, fantasmi neri. Sbaffi di china. L’azienda che li sta licenziando si chiama Delivery. Pulivano cassoni, prima di perdere l’appalto. La prima cosa che viene da chiedergli: come avete fatto a sopportare tutto questo.
Ad accettare che un posto bello e struggente lo violentassero così. Loro neanche se lo ricordano quando è arrivata la Fiat, quarant’anni fa. Gli aiuti al Sud, la questione meridionale. Soldi di Stato, complicità, silenzi. Quarant’anni fa il paradiso, per le ombre sul tetto, era uno stipendio invece che migrare al Nord.
Così hanno costruito la fabbrica e ucciso il mare. Finché qualcuno pagava per questi posti di lavoro, si campava. Ma è bastata la crisi e un po’ di concorrenza per svelare il bluff: assemblare Lancia quaggiù è un’assurdità.

Il paradosso. I tir portano i pezzi della Y da Melfi. Ogni tir, cinque auto smontate. Carrozzerie, telai, motori, scatole dello sterzo. "Senza di noi le macchine non esistono. Prendono i pezzi, li azzeccano e ci mettono quattro gomme sotto".
Pino si tira su i pantaloni nella cabina del camion. Da tre giorni ci dorme dentro perché non lo fanno scaricare. Sciopero. Ma quando la catena di montaggio funziona, per ogni tir che arriva c’è una bisarca che porta le auto nuove all’imbarco di Catania. Avete capito? Catania, non Termini Imerese. Dove il porto industriale l’hanno fatto, ma è vuoto. Invece di dieci chilometri, i camion ne fanno centocinquanta. Poi salgono di nuovo sulla nave e riportano le auto a Nord.
Come andare da Londra a Parigi passando dal Giappone. Invece di costruirle tutte qui, le macchine le "azzeccano" soltanto. Non è un’industria, è un ricovero. Anzi, un cimitero: dentro questa cattedrale del voto di scambio muore la classe operaia siciliana.
Ecco perché ora l’amministratore delegato di Fiat Sergio Marchionne, coi modi spicci da yankee del Michigan, taglia corto: "Gli operai di Termini ci costa meno stipendiarli a casa fino alla pensione che fargli montare macchine". Sembra che per ogni Y finita Fiat perda mille euro. Chissà se è vero. Ma del progetto di riportare in Sicilia una vera catena produttiva non c’è più neanche l’ombra.

Le mogli. Tredici donne – le mogli delle ombre cinesi – hanno bloccato l’ingresso, l’azienda ha preso la palla al balzo e spento i motori. La catena non gira più. A giudicare dal piazzale pieno di Lancia in tutte le tonalità del grigio, tanta fretta di produrre non c’era. Gli italiani aspettano gli incentivi, mica si fanno intenerire dagli operai sui tetti.
Antonino li ha fatti vestire tutti uguali. Visti da lontano, dentro il mirino della telecamera, potresti scambiarli per tredici velisti pronti a salpare su qualche Mascalzone Latino.
Si sono messi il k-way blu col freddo bagnato che fa. Tranne Giuseppe, uno dei più giovani. Lui è rosso e all’inizio non vuole neppure parlare. Sul tetto, tra gli sfiati caldi di CO2 – la fabbrica ronza sempre un po’, anche se solo al minimo – hanno deciso i dettagli per la trasmissione. Parlerà Antonino, il capo.
Ma quando Annozero li spara in diretta, Peppe coglie l’attimo. Ascolta le rivendicazioni del portavoce, paziente, poi gli prende gentilmente il cellulare dalle mani e chiama la sua Matilde, giù ai cancelli. Si parlano Matilde e Giuseppe. "Amore come stai?". La sua voce scende tranquilla dal tetto, solo un po’ "ibridata" dalla messa in onda. "Tutto bene. Tutto bene". "I piccoli?” "Tutto bene Peppe, tutto bene. Tu resisti che noi stiamo bene".
Mi sento un guardone. Uno spettatore di Carramba, un infiltrato al Grande Fratello. Ma Giuseppe e Matilde parlano come se io non esistessi. E in una notte tempestosa di gennaio si dimenticano la fatica e il dolore. Anche le altre donne hanno lasciato i bambini a casa. Parlano poco, piangono magari. Ma non mollano di un centimetro. Sono quasi tutte giovani, sui trent’anni e anche meno.

Nessuna difesa
. Quelli del sindacato, in presidio anche loro, non sanno bene che fare. Chi devono difendere, chi rappresentano? I 1300 operai Fiat occupati fino alla fine del 2011, quando la catena si fermerà per sempre? I seicento dell’indotto ancora vivi? Cosa deve fare il delegato Mastrosimone della Fiom? E la giovane rappresentante della Fim ammacchiata fra le donne? Guardare in basso, tra i baffoni agitati di chi ha ancora due anni di stipendio, o alzare gli occhi all’insù, verso i tredici fantasmi della Delivery?
Non te lo dirà mai nessuno, anzi è tutta una fratellanza operaia. Ma il problema c’è: la crisi non divide solo assunti, precari, padri e figli. L’ultima trincea separa cassintegrabili e non. Un confine che passa da Termini Imerese: da una parte i figli legittimi della Fiat, dall’altra i sottosfigati delle pulizie.
Un bel dilemma. Se questi non scendono dal tetto, Marchionne non fa ripartire la produzione e i cipputi della Lancia perdono soldi. I camionisti, poi: inferociti per lo sciopero, da tre giorni bestemmiano i santi e le diarie finite in trattoria. Un corto circuito micidiale, un budino sul quale Fiat affonda il cucchiaio.
Ecco perché le bandiere rosse sventolano, ma addosso ai cancelli ci sono Matilde e le altre. Quelle senza tessere né ideologie, zero. "Abbiamo votato questo governo, adesso questo governo ci tira fuori dai guai" sibila Annamaria. Qualcuna fa una smorfia, ma in fondo la moglie di Antonino dice il vero: quando mai la Sicilia è stata di sinistra? Eppure oggi qui il governo è meglio che stia alla larga. Perché un conto è trattare col sindacato, un altro convincere Matilde e le altre.
Sono le mogli casalinghe degli addetti alle pulizie in appalto di una fabbrica del Sud già morta prima di morire. Hanno chiesto ai loro uomini di resistere fino a venerdì, il giorno della trattativa a Roma. Non hanno più niente da perdere.
E alla fine vincono. Antonino e gli altri scendono dopo dieci notti d’inferno. La Delivery ha ritirato i licenziamenti. É arrivata una cassa integrazione in deroga e loro sembrano ostaggi tornati a casa dalla guerra. É venerdì sera, Giuseppe prende la mano di Matilde. Se ne vanno verso il mare, alle spalle la fabbrica dove non entreranno più. Se non arrivano i cinesi o l’Ikea, resteranno solo tetti su cui salire qui a Termini, città senza più lavoro né bellezza.

Da il Fatto Quotidiano del 31 gennaio

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