Si aggira di prima mattina nei saloni dell’Hotel Marriot con un diavolo per capello: “Ma perché questa campagna del Corriere contro di me? Perché? Ma ti rendi conto che il Corriere è l’unico giornale che non da nemmeno la notizia di questo congresso?”.
Tonino Di Pietro dice di non avere la più pallida idea del motivo per cui da quattro giorni il quotidiano di via Solferino picchia (duro) su di lui.
La notizia del giorno, invece, è l’assegno di cui il Corriere pubblica la foto. Finanziamenti più o meno occulti? Prova di legami con personaggi poco chiari? Dardi avvelenati? La firma sull’assegno è quella di Gino Bianchini, un ex dell’Italia del valori, che aveva intestato la somma al movimento: importo, 50mila dollari. Scadenza, 13 maggio 2001.
L’assegno finisce nelle mani di Mario Di Domenico, un altro ex dell’Italia dei valori (oggi con il dente avvelenato) che prepara un libro contro il suo ex leader.
E dall’archivio di Di Domenico quell’assegno esce fuori proprio oggi, accreditando l’idea di un giro di denaro che ha il movimenti dipietrista come terminale.
Mentre i militanti e i delegati del congresso dibattono sulla storia (e sulla ormai famosa foto con Contrada) Di Pietro ostenta un sorriso smagliante, e grande sicurezza. “È un’altra fregnaccia”.
Subito dopo spiega la sua versione: “Qui non c’è nessun mistero, nessuna insinuazione possibile”. Però 50mila dollari non sono bruscolini. Risposta: “Sì, però quell’assegno non è stato mai incassato. E il motivo per cui non è stato incassato, che adesso spiego, è quello che mi permette di stare tranquillissimo”.
Cioè? L’ex pm racconta: “Alla vigilia delle elezioni del 2006, noi non avevamo in cassa nemmeno una lira per fare la campagna elettorale. Allora chiedemmo un mutuo in banca”.
Accettato? “No. Le banche ci chiesero di fare un fidejussione per coprire la cifra che ci serviva: volevano tutelarsi nel caso di mancato raggiungimento del quorum“.
Prudenza legittima (Infatti il quorum fu mancato per lo zero virgola uno per cento). “La fidejussione quindi – prosegue Di Pietro – doveva essere garantita dai candidati”. Ovvero anche da lei? “Caspita! Io e Calò ci accollammo la quota superiore: 100mila euro a testa. Il criterio generale, invece, era che i candidati con maggiori possibilità di essere eletti versassero gli importi più alti”.
L’assegno di Bianchini era una di queste quote? “Certo, e non era la sola. Non a caso viene raccolta da Di Domenico, ma non viene incassato. Infatti lui ce l’ha perché se lo è tenuto, no? Se lo avessimo preso noi, l’assegno semplicemente non ci sarebbe”.
Ed è per questo che è datato? “Certo. La causale election, suppongo che si riferisse alla fidejussione. La data era quella del giorno del voto, perché allora avremmo saputo se ottenevamo il rimborso o meno”.
L’Italia dei valori un eletto lo ebbe: Carrara. Di Pietro sorride amaro: “Come no… Però passò a Forza Italia in meno di 24 ore! Un record. Ottenemmo lo stesso, però una parte di quello che avevamo speso. 400mila euro. Così ci toccò scontare in ogni caso, noi che avevamo le quote più alte, un parte della fidejussione”.
E Bianchini? “Non essendo stato eletto non versò nulla”. La fidejussione fu estinta tutta da voi? Di Pietro è sicuro: “Sì. Anche perché dopo, visto che non solo noi eravamo rimasti fuori dal proporzionale, fu fatta una leggina che concedeva il rimborso anche a chi aveva ottenuto solo l’uno per cento. Cui arrivarono altri soldi, e la situazione del movimento divenne florida”.