Società

Basaglia il liberatore

Il medico che chiuse le case dei matti

di Maurizio Chierici

Non è facile immaginare Franco Basaglia davanti alla tv mentre scorre il film sui matti da slegare, storia della sua utopia testarda che ha sconvolto la provincia culturale dell’Italia anni Sessanta. Jean Paul Sartre se n’era innamorato: “Un intellettuale concreto”. Ma i baroni della medicina frenavano, furibondi. Basaglia cancellava il ruolo dominante di signori delle corsie. Ne rimpiccioliva il potere sgretolando quel potere che la tradizione gli conferiva in quanto primario. E la casta non lo sopportava. Non sopportava l’abitudine di sgobbare quindici ore al giorno. Si era sfilato il camice, segno di autorità che ancora oggi intimorisce chi ha una gamba rotta, immaginiamo gli esclusi inchiodati nei letti di contenzione.

All’elettrochoc sostituiva la terapia della parola. “Dev’essere matto se discute con i matti”. La gente senza nome era nessuno: numeri nella contabilità dell’ospedale – casa di pena. La rivoluzione di Basaglia e degli psichiatri che lo seguivano “nella follia” considera quei malati dagli occhi spiritati, non ergastolani sepolti dal codice, ma persone estromesse dalla vita civile.

Sempre povera gente, nessun borghese o possidente ai quali era permesso superare la “debolezza” nella cliniche private. Permesso negato a contadini e braccianti: polvere della società, vergogna delle famiglie. E l’autorità li seppellisce dietro le grate con un timbro che ruba la loro vita. “Signore e signori” (li chiamava così) per Basaglia avevano solo bisogno di aggrapparsi alla considerazione di chi li curava.

Obbligatorio salutarli chiamandoli per nome. Obbligatorio affrontare assieme problemi reali e immaginari nelle assemblee terapeutiche che precedevano le assemblee ’68. Ne sollecitava gli interventi. “Lei, perché non parla?”. Li abitua a parlare. Non sempre la logica accompagnava le cose che mettevano in fila: ma guai interromperli, Basaglia alzava la voce.

Nella Gorizia del 1962 si era accorto che la demenza di gran parte dei degenti (“ospiti provvisori”) aveva radici nella voglia di scappare dalla fatica che opprimeva la vita grama. E bevevano. Ottanta per cento di alcolisti. Le sbornie li avevano trasformati in fantasmi che la comunità non sopportava. I primi giornalisti che la curiosità aveva portato a Gorizia dovevano solo divertire i lettori nel racconto dell’ospedale più strampalato del mondo.

Assemblea di ogni venerdì mattina: Basaglia, Franco Rotelli, Agostino Pirella, Slawitz, tanti, dirigono la riunione che deve decidere i nomi di chi può tornare a casa per il fine settimana. Concessione che indigna il procuratore della Repubblica e l’onorevole missino della città: “Attentato all’ordine pubblico con complicazioni internazionali”.

Perché il muro che chiude il parco del manicomio segna il confine tra Italia e Jugoslavia. “Il signor Furlan merita la vacanza in famiglia?”. Lo decidono voti e interventi: “Non merita perché ha promesso che appena esce beve”. Il signor Furlan scuote la testa. “Le prometto di proporla per il prossimo weekend“. Parola incomprensibile, ma una promessa del direttore è una promessa seria. E si acquieta. Da Gorizia a Parma, manicomio di Colorno mentre i ragazzi del ’68 si innamorano della sua follia. Occupano gli ospedali dai letti incatenati.

Ecco l’incontro fatale con Mario Tommasini, assessore alla sanità, terza elementare: la sua pietà aveva preceduto la pratica del professore. Aveva svuotato gli orfanotrofi distribuendo alle famiglie che adottavano un bambino quanto doveva spendere per mantenerlo nella solitudine dei cortili. Sotto l’ala di Basaglia, Tommasini chiude il manicomio liberando i matti-contadini in una fattoria dove già provano a dimenticare le polveri bianche ragazzi che scappano dalla droga. Ne diventano angeli custodi. Amministrazione affidata a detenuti in libera uscita nelle ore del lavoro. “Ha perso la testa”: i baroni non si arrendono. Invece funziona. “Impariamo a conoscere il diverso per farlo vivere con noi”.

La Salvarani che fa mobili è la prima industria d’Europa ad assumere venti operai down: la solidarietà dei lavoratori accanto li trasforma in operai come gli altri. La reazione della buona società è terrificante. Giornali e tv scatenate. Anche perché Basaglia insiste nel trascinare i suoi fantasmi nella vita. Gita in aereo, mondo capovolto. Attenzione agli sguardi che i relitti uomini e i relitti donne incrociano nelle passeggiate nel parco. Basaglia e Tommasini creano appartamenti comunità.

Affiorano tenerezze sepolte. Ma l’assedio non si arrende. A dire il vero anche certi intellettuali continuano a considerare i malati protagonisti marginali della società. A Trieste, Basaglia trasforma l’ospedale asburgico – padiglioni in fila nella collina – in una comunità multiculturale con risvolti commerciali. Via le sbarre, uffici, bar. Le famiglie che passeggiano la domenica non sospettano che il giardiniere o la ragazza che porta il caffè o il guardiano gentile nei saluti, qualche mese prima vagavano dietro le sbarre.

Nel 1977, mentre il progetto della legge che chiude i manicomi inquieta baroni e onorevoli della tradizione, Basaglia organizza un convegno per “rompere i meccanismi dell’emarginazione”. I nuovi filosofi parlano con Felix Guatari. Il professore pretende la testimonianza di un paziente, ma attorno al microfono di stringono i francesi di Marge e gli autonomi italiani.

Vogliono parlare e subito. Lo spingono fuori, lo buttano a terra. Torna allo studio pallido e senza una parola: due costole rotte. Franca Ongaro, la moglie con la quale ha condiviso il sogno, lo fascia con pazienza. Perché serve pazienza quando si ha un marito che vuol tornare nel caos per ascoltare e spiegare. Torna, spiega, ecco l’applauso liberatorio. “Non è successo niente. Ricominciamo”.

da il Fatto Quotidiano del 6 febbraio