di Michela Murgia*
È probabile per molti sia stato uno choc scoprire dai giornali che riportano la vertenza Alcoa che in Sardegna ci sono industrie e non solo spiagge, ma è vero, come è vero che queste industrie sono in crisi, sull’isola esattamente come ovunque. Ma come tutti i luoghi cristallizzati in un immaginario onirico, la Sardegna non può permettersi di essere un ovunque qualsiasi, perché vista dalla costa tirrenica non è forse neanche un luogo. Piuttosto è uno stato d’animo, così stabilmente impresso che non ammette variazioni.
Dici "Sardegna" e anche chi non c’è mai stato ti sorride, proiettandosi in una dimensione parallela in cui ogni cosa è solare, marina, bilionaria e trendy. Non certo industriale. Al massimo, unica variante d’immagine alternativa a quella vacanziera, può essere pastorale, purché per pastore si intenda quello bucolico con il silenzio in bocca e la sapienza un po’ pericolosa di chi con la natura ci ha fatto società in nome collettivo.
Nella geografia fantastica dove è collocata per molti la Sardegna – la stessa di Topolinia e della Terra di Mezzo, va detto – è difficile innestare persino la semplice constatazione che il mondo pastorale sia oggi radicalmente modificato dalle tecnologie, dai flussi migratori e dalle regole spietate dell’economia globale, che per prime conformano agli standard proprio le produzioni tradizionali. Ma nessuno vuol sentir dire questo mentre ordina un pecorino sardo al ristorante, perché i luoghi dello spirito sono inviolabili, l’evidenza non è sufficiente a intaccarli.
È una rispettabile forma di sopravvivenza, si ha bisogno che i sogni stiano immobili proprio nella misura in cui tutto il resto va nella direzione opposta a quello che tutti, quando ancora aveva senso chiedersi cosa fare da grandi, sognavamo di diventare. Per questo, fuori dai contorni della cartolina, la Sardegna vera con i suoi problemi non solo non esiste, ma neppure deve esistere, è un anti-luogo, una perenne zona di rimozione.
Perché operai, disse questo premier in campagna elettorale, quando potete essere tutti giardinieri? Nel mondo-giardino tutto quello che non è abbastanza fotogenico da entrare nelle pagine di Chi è una fastidiosa interferenza sul digitale terrestre, abuso di qualche disfattista rete locale all’assalto delle frequenze delle anime altrui.
Le pro loco sono d’accordo da sempre: i problemi della Sardegna non fanno bella figura sulle brochure, e il risultato di questa pantomima collettiva è che persino i sardi a volte sembrano credere di vivere in un luogo sospensivo, dove ogni problema è ridimensionato dal fatto di rappresentare da quarant’anni il sogno di qualcun altro. Questo auto inganno è parte del prezzo di aver accettato anche culturalmente che una parte diventasse il tutto, che il non-luogo per eccellenza divenisse sineddoche dell’intero mondo sardo, con tutte le sue ricche contraddizioni ridotte a ballo tondo intorno all’area di svago del danaroso barone di turno.
Nessuno stupore se la Costa Smeralda è oggi l’unica Sardegna che ci è permesso fotografare, l’unica che ci renda riconosciuti e riconoscibili ai più; l’altra son fatti privati, panni da lavare in casa, una Cosa Nostra senza neanche la soddisfazione del fatturato, perché se la criminalità organizzata è altrove, un’industria fiorente e l’onestà disorganizzata al massimo può essere uno sciopero disperato in piazza quando perdi il lavoro.
Pochi sembrano trovare il coraggio di dire a questi operai che sono stati ingannati, che il futuro dei loro figli è nelle energie pulite, in un turismo sostenibile che non si spenda nell’edilizia, e soprattutto nella ricerca tecnologica, unica industria compatibile con un paesaggio che ha ancora senso definire intatto. Sanno che non farà eleggere nessuno la constatazione che la "rinascita" invocata in piazza dai sindacati non può essere quella dell’industrializzazione dopata dai contributi statali, e che non è sviluppo il lavoro svilito ad ammortizzatore sociale, girato in voto al momento del ricatto come una cambiale all’incasso.
Forse non è un caso che a dirlo siano solo gli indipendentisti, quelli che stanno crescendo con il voto degli under 30, la prima generazione che non avverte più lo sfondo di una cartolina statica su cui mettersi in posa, o il bisogno di un nume esterno da invocare come cavalleria quando il fortino di cartapesta del parco giochi estivo crolla senza rumore sul falso mito di sè stesso, portandosi dietro i resti della fragile fantasia di una industria pesante in mezzo al mare.
Nel frattempo però la Sardegna in cartolina si riorganizza a modo suo: mentre gli operai in piazza disperano per il lavoro, l’assessorato alle politiche sociali di Cagliari si prepara a fronteggiare il dramma organizzando tre giorni di festeggiamenti per il cinquantesimo compleanno di Barbie, proposta nientemeno che come icona di emancipazione femminile. Chissà se esiste la Barbie Operaia.
*Scrittrice. Il suo ultimo romanzo è "Accabadora" (Einaudi 2009)
Da il Fatto Quotidiano del 6 febbraio