New Orleans in delirio per la conquista della prima vittoria nel match di football più importante d’America

di Giampaolo Scaglione

Bourbon Street è una delle vie più famose d’America. Chi è nato e cresciuto a New Orleans non ci va volentieri: è il classico posto per turisti, di solito troppo affollato. Ma per una notte in molti hanno fatto un’eccezione.

Sì, perché è stata la notte del quarantaquattresimo Superbowl, l’annuale celebrazione di un rito che, per solito, fa da spartiacque ai destini di molti americani. A cominciare dai giocatori delle squadre che ne sono protagonisti, passando per i milioni di tifosi e di semplici appassionati, per finire a quelli di chi investe milioni di dollari per pubblicizzare una bibita o qualsiasi altra cosa, durante le pause del match.

È il Superbowl, signori, si vince o si perde: è la massima espressione mediatica di un gioco americano, che più americano non si può, a cominciare dal nome che lo differenzia dal soccer (il nostro calcio) e il rugby di ben nobili e inglesi ascendenze. Assomiglia al rugby, ma è qualcosa di più violento, meno elegante forse ma di certo più evocativo, rispetto al suo illustre progenitore anglosassone, di atmosfere perdute, di giostre medievali con tanto di armatura ed elmi. E dietro ogni elmo, la faccia di un giocatore e la sua storia. Quasi mai scontata e quasi mai banale.

Come quella della città, New Orleans, che è impazzita per i suoi Saints, che hanno vinto il primo titolo a quarantatre anni dal loro debutto nella Lega. Come quella del miglior giocatore della partita, Drew Brees, che ha guidato i suoi alla vittoria di Miami. L’atleta nato a Dallas nel 1979 è un quarterback e, come tale, ricopre un ruolo-chiave nella squadra: deve saper lanciare, correre e all’occorrenza anche segnare. Per lui la partita di ieri sera era quella della vita e non l’ha sbagliata: 2 mete e 288 yards sono i "numeri" della sua serata.

E dire che, qualche tempo fa, un infortunio alla spalla aveva messo a rischio la sua carriera. Tutto cancellato, come i dieci punti di svantaggio che i Saints avevano collezionato ad un certo punto della gara. Non è stata una passeggiata, insomma: ma per i tifosi di New Orleans che hanno preso d’assalto Bourbon Street questo è stato un ulteriore motivo di soddisfazione.

Incredibile ma vero, i clacson delle macchine sono impazziti appena è stato chiaro che gli Indianapolis Colts (guidati da un altro quarterback d’eccezione, Peyton Manning) non ce l’avrebbero più fatta a frapporsi tra i Saints e la loro prima, storica vittoria in un Superbowl. Kathrina e le sue orrende devastazioni, solo un ricordo. Il presente è un team di football che ha distrutto gli avversari. Senza se e senza ma, nella notte più importante. Puntuale e di talento, come un vero contrabbassista jazz.

Quelli che hanno seguito la fatale disfida in tv hanno ammirato (o subito, dipende dai punti di vista) gli inevitabili spot da tre milioni di dollari per trenta secondi: tariffa equa, calcolando la sterminata audience dell’evento.

Denaro a parte, si tratta anche di vedere se , come e perché un filmato pubblicitario trasmesso a sì caro prezzo ha bucato il video. Ebbene, creativi e registi degli spot hanno puntato su personaggi della musica, del cinema e della musica ben conosciuti a un pubblico, come quello del Superbowl, che più generalista non si può. Così ben conosciuti da apparire vintage.

Con l’ovvio risultato di non correre rischi inutili ma anche di non stupire: tra gli altri, Stevie Wonder, Charles Barkley e addirittura Lance Armstrong. Menzione d’onore per coloro i quali hanno intrattenuto il pubblico tra la prima e la seconda frazione di gara: gli Who. Anche loro vintage: senza tempo, però. 

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