La domanda è diventata uno slang che attraversa salotti borghesi e mercati popolari, uffici e redazioni, bar e sale Bingo, in una parola, tutta Palermo: "Perché parla Massimuccio?". E, soprattutto, perché parla proprio ora? Perché un giovane rampollo della borghesia mafiosa dal cognome pesante, che ha respirato omertà da quando era in fasce, custode di segreti e di miliardi, decide un giorno di fine 2007 di abbandonare la sua "dolce vita", destinata a continuare nonostante una condanna per riciclaggio e una confisca di 60 milioni di euro per incontrare Maurizio Belpietro, allora direttore di Panorama, e avventurarsi sui sentieri impervi della trattativa "mafia-stato" sollevando una querelle istituzionale dai risvolti imprevedibili?

E aprendo, di fatto, la strada ai primi interrogatori di gennaio 2008 (Caltanissetta) e marzo 2008 (Palermo) per puntare, come missili, le sue parole e i suoi documenti, contro Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi? In buona sostanza a Palermo la domanda alimentata dalla diffidenza verso un cognome che ha segnato in negativo la città e una vicenda istituzionale dai contorni ancora confusi, e: "chi glielo fa fare?".

Come per la formazione della squadra rosanero, ciascuno dei palermitani, ha, ovviamente, una propria risposta, a volte ancorata al terreno della logica, più spesso in volo nei cieli della dietrologia. Vuole salvare quel che resta (e non è probabilmente poco) del patrimonio familiare? Vuole sfuggire alla misura di prevenzione personale, l’unica che veramente lo spaventa e che gli impedirebbe di continuare a fare il trader sui mercati di mezzo mondo? Regola conti antichi del padre eseguendo una volontà testamentaria non scritta di don Vito, che negli ultimi mesi di vita gli descrisse "in maniera criptica la natura dei suoi rapporti economici attraverso una rete di prestanome?".

Lui la spiega cosi’, mescolando ragioni nobili e meno nobili, familiari e civili: "L’amico del sig. Franco mi disse di non parlare di lui, del suo mondo, di Berlusconi e della trattativa, De Donno mi assicurò che sulla trattativa avrebbero messo il segreto di Stato. E il pm Sciacchitano, attraverso il prof. Lapis, mi mandò a dire di non parlare della società del gas: a Lapis risposi che mi ero rotto le scatole di proteggere tutti e pagare solo io. E mia moglie (stanca dei guai giudiziari, ndr) mi disse che stavo rovinando il bambino chiamandolo Vito Andrea. Con lei presi un impegno, il giorno che sarei stato condannato avrei smesso con questa vita. Da oggi voglio che mio figlio Vito sia orgoglioso di portare il cognome che porta".

Se la serenità interiore di Gaspare Spatuzza notata da più d’un pm è il biglietto da visita della sua conversione religiosa, appare oggettivamente più difficile attribuire alle parole di Ciancimino jr, per ragioni familiari da sempre immerso in una sub cultura omertosa, l’abito laico di una folgorazione civile sulla via di Arcore.
Ma se è giusto interrogarsi sul perché il giovane Massimo parli solo adesso, appare lecita la medesima domanda nei confronti di altre memorie ad orologeria dei protagonisti sul palcoscenico istituzionale, da Nicola Mancino a Claudio Martelli, da Liliana Ferraro a Luciano Violante fino agli stessi Mori e De Donno, che rivelarono dopo sei anni il loro incontro del 25 giugno con Paolo Borsellino.

A conferma che i buchi neri di quella stagione sono ancora numerosi, e i miliardi di Ciancimino portati a Milano alla fine degli anni ’70, come testimoniano le sentenze dei processi di mafia e di bancarotta e le collezioni dei giornali dell’epoca, possono costituire una formidabile chiave interpretativa per rileggere vicende ancora attuali nell’Italia dei patti e dei ricatti.

da il Fatto Quotidiano del 10 febbraio

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