Politica

Rai, la par condicio diventa un bavaglio

Da argine per Berlusconi a strumento contro gli oppositori

di Loris Mazzetti

Con la scusa di applicare la par condicio, la prossima campagna elettorale per le regionali vedrà la Rai ancora una volta imbavagliata.

Chi dovrebbe controllare che la tv di Stato svolga correttamente il ruolo di servizio pubblico ha deciso, invece, di impedirglielo. La Commissione parlamentare di vigilanza, con i voti del centrodestra e del radicale Beltrandi, ha imposto che le trasmissioni di approfondimento non potranno andare in onda, a meno che, i vari Santoro, Floris, Annunziata, Vespa, ecc., non si rendano disponibili a trasformare i loro talk-show in classiche tribune politiche.

La par condicio (in vigore dal 22 febbraio 2000), è quell’infernale legge che regolamenta la presenza in tv dei politici durante le campagne elettorali. Voluta dal centrosinistra per tentare di bloccare la bulimia televisiva di Silvio Berlusconi (straordinario campione di record tra interventi in studio o al telefono), come nel 2006 quando alla vigilia della campagna elettorale riuscì a superare le presenze editorial-propagandistiche di Bruno Vespa: un intervento a Uno Mattina, poi alla Domenica sportiva, passando da Biscardi.

In realtà la par condicio rappresenta un tentativo, mal riuscito, del governo D’Alema per tamponare, in assenza di una vera legge, l’enorme conflitto di interessi di cui è protagonista il premier. Essa impone a tutte le trasmissioni un controllo anche sui contenuti: in campagna elettorale non si possono affrontare argomenti di natura politica, in teoria tutto diventa illecito: dopo la storia tra Berlusconi e la escort D’Addario anche il gossip è politica.

Per superare ciò, il regolamento prevede che le trasmissioni di approfondimento, Annozero, Ballarò, In mezz’ora, Porta a Porta, ma anche Presa diretta, Report o Mi manda RaiTre e tante altre, se ricondotte sotto la responsabilità di un telegiornale (da RaiTre al Tg3, ad esempio), possono affrontare argomenti di attualità, con l’obbligo di mantenere, nella loro globalità, in equilibrio la partecipazione dei politici.

Se nella prossima inchiesta di Riccardo Iacona, dove si parlerà di scuola e della riforma Gelmini, è stato intervistato un amministratore locale, con la trasmissione ricondotta sotto il tg l’intervista può andare in onda, altrimenti deve essere eliminata anche se indispensabile. La decisione della Commissione di vigilanza, se applicata alla lettera, obbliga la Rai a cambiare buona parte del suo palinsesto.

La commissione è andata ben oltre il suo compito che era quello di determinare la data da cui far partire l’applicazione della legge, come denunciato dal centrosinistra che al momento del voto ha abbandonato l’aula. In questi dieci anni il maggior oppositore alla par condicio è stato, ovviamente, Berlusconi, che ha contestato il comma che prevede che gli spazi tv siano ripartiti in parte uguale tra partiti e movimenti che si presenteranno al voto.

La commissione ha deciso di dare esecuzione al "suggerimento" di Sua Emittenza: le tribune politiche saranno vietate a chi non ha raggiunto la soglia del 4% alle ultime europee.

Impropriamente si parla della par condicio come di una legge che entra in vigore durante la campagna elettorale, in realtà è applicata per dodici mesi l’anno, non solo nei confronti dei politici ma anche degli intellettuali e dei giornalisti, l’esempio classico è quello di Marco Travaglio che ad Annozero deve essere bilanciato da un giornalista di destra, come se questi non avessero spazio nella tv pubblica. In questi giorni è apparso nei telegiornali, in particolare Tg1 e Tg2, un volto nuovo della politica: Anna Maria Bernini, avvocato bolognese, entrata in Parlamento con Berlusconi alle ultime politiche.

Dal 29 gennaio, da quando è stata candidata governatore alla regione Emilia-Romagna, è presente nelle principali edizioni dei due tg. Dov’è finito il controllo della commissione? La par condicio con il candidato del centrosinistra Vasco Errani perché non viene applicata? C’è una par condicio che è ben più importante: la deontologia, quella che non dovrebbe essere decisa per decreto, quella che dovrebbe stare nella testa e nel cuore di ogni giornalista.

Da il Fatto Quotidiano dell’11 febbraio