A un anno dall’exploit al congresso dei circoli Pd la “giovane promessa” si definisce una "dirigente responsabile"

di Wanda Marra

Vi ricordate Debora Serracchiani, la ragazza con la frangetta che in pochi giorni, quasi un anno fa, diventò l’icona di un Pd che puntava al rinnovamento? Che fine ha fatto? È cresciuta. Parole sue: "Ho assunto una responsabilità e un ruolo che prima non avevo. Adesso devo cercare di tenere insieme il partito. Questo significa essere in grado di trovare soluzioni di compromesso, in base a un ragionamento politico più profondo. Lo spessore si misura anche su questo".

In effetti, quella della Serracchiani nell’ultimo anno è stata un’ascesa fulminante: da segretaria del Pd di Udine è diventata prima europarlamentare, con 144.558 preferenze (9.600 più di Berlusconi, 6.500 più di Bossi) poi segretaria regionale del Pd Friuli Venezia Giulia, eletta con le primarie.

Tutto era cominciato al congresso dei circoli del Pd, il 21 marzo del 2009, quando un’allora sconosciuta "ragazza" con la frangetta (poi si seppe che era un’avvocato di Udine, nata nel 1970) prese la parola e le cantò senza mezzi termini ai vertici del suo partito. Sui temi etici, sull’opposizione, sul ruolo del Pd, sulla necessità di un rapporto con la base. Venne giù la platea e il suo video, ripreso da Youtube in pochi giorni venne visto 50mila volte.
Lei, che non aveva risparmiato le critiche all’allora segretario Franceschini, diventò una celebrità.

E fu proprio l’ex segretario a lanciarla verso Bruxelles, dopo averne incassato il sostegno nella competizione congressuale, tanto che circolò anche la voce che ne volesse fare la sua vice. Rifarebbe quell’intervento ai circoli un anno dopo? "Assolutamente, con la stessa convinzione di allora se non di più, se fosse necessario".

Un anno dopo, dunque, Debora sostiene di avere gli stessi obiettivi di allora: "Un rinnovamento della classe dirigente che passa anche per un collegamento di questa con la base. E che non è solo anagrafico". Sull’onda della sua consacrazione a giovane leader, Debora l’estate scorsa, dopo il trionfo alle europee, mandò in libreria un istant-book, che raccontava anche la sua storia: "Il coraggio che manca". Dal primo voto dato ai Verdi al fatto che prima non distingueva Berlinguer da Moro e ignorava più o meno i partiti della Prima Repubblica.

Poi c’è il Pd, dall’entusiasmo per Veltroni alla constatazione degli errori fatti. Non è donna che si lasci sfuggire le occasioni anche quelle di correggere il tiro, Debora: all’epoca, la sua scarsa conoscenza delle radici politico-identitarie del nostro paese le attirarono addosso non poco critiche. E così ora cita tra i suoi riferimenti proprio Moro e Berlinguer, ammettendo però di "non avere una storia politica particolarmente radicata".

Tra i libri imperdibili cita "Qualcuno era comunista" di Luca Telese, che "mi ha aiutato a inquadrare un certo periodo storico e certi avvenimenti" (racconto e lettura anche interpretativa della svolta della Bolognina, ndr). Ma dice di preferire i romanzi a sfondo storico, anche se ha letto "tutta Jane Austen". Tra i registi, mette sullo stesso piano Clint Eastwood, Tornatore e Virzì.

Tornando al Pd, ammette che "sono stati fatti degli errori". Per esempio, a proposito delle primarie in Puglia e del ruolo avuto da D’Alema: "Non è giusto voler imporre delle scelte dall’alto. Credo in un partito federale". Il modello di Pd per cui batte il suo cuore è quello di Veltroni e Franceschini. E pazienza se in questo momento tra i due regna qualche dissapore.

Con un certo qual saggio ecumenismo invita a "lasciar lavorare Bersani", mentre disegna il ritratto di quello che dovrebbe essere il ruolo di un partito del presente: "Ascoltare, riconquistare i luoghi anche fisici, come le fabbriche e le università, essere concreto e pronto all’azione". E se poi l’opposizione non è incisiva come dovrebbe e le posizioni non nette come forse ci si aspetterebbe "è perché il Pd è un partito plurale e paga anche il fatto di essere tale". Debora è davvero cresciuta.

da il Fatto Quotidiano del 13 febbraio

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