Saviano può pubblicare per Mondadori? E si può collaborare con giornali non allineati? La polemica infuria, sul web e fuori.
A novembre, Vincenzo Ostuni, direttore editoriale di Ponte alle Grazie fonda un gruppo su Facebook in cui lancia un Appello a Roberto Saviano perché smetta di pubblicare per Mondadori. nella speranza che il suo esempio venga seguito da altri scrittori. Helena Janeczek (scrittrice ed editor di Gomorra) il 20 gennaio scrive un articolo sul blog «Nazione Indiana» dal titolo «Pubblicare per Berlusconi?» in cui difende le ragioni di chi lavora e pubblica con il gruppo Mondadori, facendo una distinzione tra lavorare per un gruppo editoriale e collaborare con un organo di stampa che abbia una precisa linea editoriale, come il quotidiano «Libero», inserendosi così nella polemica tra il critico letterario Andrea Cortellessa e lo scrittore Paolo Nori riguardo alla scelta di Nori di collaborare con «Libero». Polemica che ha suscitato commenti molto duri su diverse testate («Libero», «il Giornale», «il Corriere della Sera»). Lo scrittore Vincenzo Consolo ha deciso di non partecipare a un’iniziativa einaudiana in favore di Roberto Saviano per via di un’intervista rilasciata dallo stesso Saviano a «Panorama», in cui dice di essersi formato su Jünger, Pound, Celine.
di Evelina Santangelo
In una conferenza tenuta nel 1976 all’Amherst College Calvino, cercando di definire gli usi politici giusti e sbagliati della letteratura, avviava quel suo discorso dicendo che «la funzione pubblica più richiesta in Italia» in quegli anni sembrava essere «la provocazione», consacrata «dalla vita, dalla morte e dalla vita postuma di Pasolini». E non aveva alcuna remora nel sostenere di non essere d’accordo con quell’idea invalsa nel «vasto pubblico nazionale» di concepire lo scrittore come un «provocatore». Ora, quel riferimento al «vasto pubblico per il romanzo italiano» e quella libertà di giudizio con cui Calvino si esprime su un altro scrittore e intellettuale della statura di Pasolini (al di là di qualsiasi altra considerazione di merito) toccano due aspetti essenziali in cui si iscrive il ruolo sociale dello scrittore: l’attenzione del pubblico e l’indipendenza di giudizio, la radicale libertà di non ritenere niente e nessuno insindacabile. Se guardiamo al nostro tempo e alle nostre circostanze, probabilmente la gran parte di noi vedrebbe nell’«andamento intellettuale» e culturale qualcosa di molto simile alla vertiginosa alienazione sintetizzata da Bradbury in Fahrenheit 451, dove tutto è ridotto a indistinto «pastone» mass mediatico in cui non è nemmeno contemplata l’idea che si possa persino dissentire.
In un mondo del genere (o molto simile), parole come quelle espresse da Calvino, quel modo stesso di ragionare e argomentare, di sicuro non avrebbe diritto di cittadinanza, non perché qualcuno non potrebbe anche pronunciarle, ma perché non ci sarebbe quasi nessuno in grado o interessato ad ascoltarle. E questa circostanza, che definisce il nostro tempo, è una debolezza di cui non si può non tener conto, volendo interrogarsi sul ruolo e le responsabilità che attengono agli scrittori nell’odierno spaesamento e sradicamento (sociale, economico, culturale). Così, mentre da una parte lo scrittore è percepito dalla stragrande maggioranza del pubblico di romanzi come un intrattenitore o un qualsiasi produttore di beni di consumo, dall’altra, e di contro, chi vorrebbe scrittori più coraggiosi, più combattivi, più calati nel corpo delle nostre contraddizioni, anzi delle nostre specifiche anomalie, finisce per delegare ogni responsabilità etica, politica, culturale a uno solo, fatto simbolo. Una condizione aberrante per uno scrittore, anche se lo scrittore si chiama Roberto Saviano, con tutto il coraggio, l’impegno che evoca un libro come Gomorra. Pure di questo bisogna tenere conto per fare un discorso sul ruolo sociale dello scrittore nel tentativo di comprendere in che modo si possa spezzare, intanto, questa doppia solitudine: dell’unico, trasformato in simbolo dell’idea stessa di impegno, e dei tanti, noti a cerchie più o meno ristrette di cultori, fan, lettori e, per il resto, macinati in quella centrifuga lì, che tende all’indistinto. In questo stato di cose, la prima considerazione che verrebbe da fare ha a che vedere proprio con l’irrilevanza sociale dello scrittore nella sua specificità. «La letteratura, – dice Calvino in quello stesso intervento, – è necessaria alla politica prima di tutto quando essa dà voce a ciò che è senza voce… le tendenze represse negli individui e nella società», ed è necessaria, in modo più indiretto, in quanto «capacità di imporre modelli di linguaggio, di visione, d’immaginazione». Ora, quel che oggi, più che mai, «non ha voce» sembra proprio questa peculiarità. Non è che non ci siano scrittori in grado di concepire e dar forma a visioni o immaginazioni capaci di interrogare il proprio tempo, il fatto è che le loro visioni, le loro immaginazioni o intuizioni non riescono quasi mai a collegarsi in una sorta di circuito, in una sorta di discorso più vasto e intrecciato, anche contraddittorio, quel genere di discorso a più voci che costituisce, e dà anche rilevanza sociale a una società letteraria , intellettuale, artistica soprattutto se riesce a innestarsi in altri discorsi non specificatamente letterari: discorsi politici, discorsi sociali, discorsi identitari… Tutti quei discorsi insomma di cui dovrebbe esser fatta la vita civile di un paese civile, e che definiscono nel loro complesso lo spazio pubblico.
Invece, quel che oggi possiamo registrare, senza nemmeno voler entrare nel merito specifico delle questioni, va tutto nella direzione opposta: 1) qualsiasi accenno a una divergenza di vedute riguardo, ad esempio, al ruolo e alle responsabilità di uno autore (come è accaduto nel caso delle obiezioni mosse dal critico Andrea Cortellessa allo scrittore Paolo Nori sulla scelta di collaborare con il quotidiano «Libero», per via della sua linea editoriale) viene tacciato da una parte non irrilevante della stampa («Libero», «il Corriere della Sera») di «ostracismo», ostracismo smentito dallo stesso Paolo Nori, che, essendo scrittore attento all’uso delle parole, sa quale responsabilità implichi un loro uso distorto; né questo suscita un qualche dibattito; 2) qualsiasi dissenso riguardo ai modelli culturali di riferimento (come quello espresso da Vincenzo Consolo nei confronti di Roberto Saviano quando questi evoca autori non tanto di destra ma espressione di una visione discriminatoria dell’umanità), qualsiasi dissenso del genere, espresso in modo radicale da parte di uno scrittore nei confronti di un altro scrittore è ugualmente tacciato più o meno dalle stesse testate di «ostracismo» e, per il resto, come nel caso precedente, sostanzialmente lasciato cadere nell’indifferenza. E questo mentre, da più parti, parti anche molto diverse tra loro, anzi opposte, (dal «Giornale» a «Libero», ai firmatari dell’Appello a Saviano perché lasci la Mondadori) si sollevano accuse, obiezioni, dubbi che, al di là di ogni altra considerazione, entrano nel merito di una questione fondamentale e più vasta: la libertà e autonomia di espressione rispetto a qualsiasi proprietà editoriale, contro quella che Helena Janeczeck ha definito una «visione padronale dei rapporti aziendali». Questioni del genere che riguardano la funzione stessa dello scrittore come radicale espressione di un pensiero libero e irriducibile, esigerebbero quel discorso più vasto di cui si diceva prima, non questo solitario, episodico levarsi di voci, ora zittite ora destinate a cadere vittime di quella forma di censura, o meglio di autocensura, che accompagna il senso della propria irrilevanza, in un momento, tra l’altro, in cui ci vorrebbero non solo visioni, ma appunto trame, narrazioni capaci di riannodare i fili dispersi di un paese che sembra aver perso se stesso, il proprio retroterra, la propria stessa ossatura.
da Il Fatto Quotidiano del 13 febbraio 2010