Come incassare 850.000 euro in Italia e finire (con tutti gli onori) al Village.
di Giampaolo Scaglione
Credevate di sapere tutto su Videocracy, il docufilm distribuito nelle nostre sale a partire dallo scorso settembre. Forse non sapete che ha totalizzato poco più di 850.000 euro al box-office: nella classifica 2009 dei 100 film più visti in Italia si trova al numero 64. Un po’ poco, insomma. Ma il lungometraggio è salito pochi giorni fa agli onori della cronaca americana grazie al New York Times, e non certo per le ormai ricorrenti turbolenze politico-giudiziarie in ambito governativo e paragovernativo. Non solo per quelle, almeno. È successo che in questo week-end Videocracy sarà proiettato in un entertainment space della Avenue of the Americas, terza Strada, Greenwich Village.
Leggereil pezzo di Manohla Dargis dedicato all’evento è istruttivo: aiuta a capire in che cosa consiste l’immagine del premier al di là dell’oceano. Dove ancora ci si stupisce su come un magnate dei media sia al suo terzo mandato da premier e si stigmatizzano le sue battute (Obama “abbronzato”, Mussolini dispensatore di “vacanze” ai suoi oppositori). Spazio agli ultimi eventi, quindi: a dicembre, Berlusconi a Milano da uno psicolabile e la magistratura – eccola! – chiede ai medici la cartella clinica dell’illustre ricoverato, dopo la sua pronta (per fortuna) guarigione. Pochi giorni fa scoppia il caso-Bertolaso: con molta eleganza, la giornalista del NYT sorvola sulle polemiche innescate dal capo della Protezione civile a Haiti, poche settimane fa, e osserva che il pupillo del premier è accusato di corruzione nel quadro di un’inchiesta che ha portato a quattro arresti.
Nulla di più, sul Guido nazionale. Ma ce n’è abbastanza, per la Dargis, per scoprire Videocracy e sottolineare che il suo regista, Erik Gandini, è un italiano che ha studiato cinema in Svezia; la tv svedese ha accettato di co-produrre il film, peraltro. Giusto per controbilanciare il beneficio ottenuto, il trailer di Videocracy è stato rifiutato sia dalla Rai che – si capisce – da Mediaset. Ma non importa: chi ha visto il film sa che le prime inquadrature si riferiscono all’archetipo di un genere tv che avrà la sua consacrazione solo negli anni Ottanta con Colpo grosso: parliamo di Spogliamoci insieme di Tele Torino International, emittente che il futuro premier comprò nel 1980. Di qui, la fulminante osservazione della giornalista del NYT, secondo la quale per Berlusconi “meno vestiti hanno addosso le donne, più è facile acquistare potere”. (Intendiamoci: la teoria ha anche i suoi padri nobili: Sciascia, in relazione ai suoi conterranei, parlava senza remora alcuna della loro autentica ossessione per il gentil sesso in celebre libro-intervista di Marcelle Padovani).
Fatto sta che Gandini indugia sulle donne che non si risparmiano nel loro “Meno male che Silvio c’è” – la Dargis traduce in maniera erronea in un “Thank God Silvio exists” senza sapere o forse sapendo della storiella non proprio edificante dell’Unto dal Signore?. E la tv? Ci sono le facce di Lele Mora e Fabrizio Corona – che passano alle cronache americane l’uno come ammiratore del Duce e l’altro come uno che si è fatto la galera per tentata estorsione – ma quelle sono solo facce, appunto: la tv è Berlusconi, scrive la Dargis citando il professor Ginsborg, perché è il medium che può tradurre in pratica le idee di Berlusconi nel minor tempo possibile. Videocracy getta nuova luce sul controverso rapporto confronto tra la politica e i media: l’acquisizione del consenso, nel caso del premier, è passata attraverso la ricerca della celebrità, elemento che non poteva essere ottenuto se non creando, comprando o mettendo sotto controllo tv, radio, giornali. L’ultima frontiera – vedi “decreto Romani” – adesso è Internet.