Nell’estate del 2009 il recupero degli indici borsistici iniziato a marzo sembrava ormai consolidato e l’intera finanza internazionale poteva tirare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. Autori di questo miracolo, che aveva impedito al mondo di precipitare in una seconda Grande Depressione, erano, a giudizio di tutti, gli Stati e le Banche centrali. Con interventi di entità senza precedenti, a cominciare da massicce nazionalizzazioni di banche e assicurazioni. Questo neo-interventismo statale fu in parte frainteso come “keynesiano” (mentre non si trattava di investimenti pubblici per rilanciare la domanda aggregata, ma di semplice socializzazione delle perdite), e diede luogo anche a polemiche sui rischi di un ritorno in grande stile dell’intervento pubblico nell’economia. Già allora ebbi a scrivere che si trattava di polemiche fuori bersaglio: “Le cose stanno diversamente. La gigantesca trasformazione di debito privato in debito pubblico, se non è riuscita né a ridurre l’entità complessiva del debito né a rianimare l’economia, può porre le premesse di un’ulteriore crisi del debito: quella, appunto, del debito pubblico, o – come si dice in gergo – sovrano; con uno Stato costretto a impegnare risorse che non ha e oltretutto privato dalla stessa crisi delle entrate fiscali necessarie anche solo a sostenere la normale amministrazione. A questo punto il risultato… sarebbe una pesantissima crisi fiscale dello Stato, un’ulteriore drastica riduzione del suo ruolo nell’economia e il campo libero lasciato alle grandi multinazionali private… Se così accadesse, del welfare resterebbe ben poco” (introd. a K. Marx, Il capitalismo e la crisi, DeriveApprodi, 2009, pp. 49-50).
È quanto sta accadendo sotto i nostri occhi. Siamo entrati nella seconda fase della crisi, che investe il debito pubblico. E siccome nell’occhio del ciclone c’è l’Eurozona (anche se le potenzialità di contagio vanno ben oltre i suoi confini), finalmente i paesi europei si trovano d’accordo su qualcosa: bisogna abbattere il debito pubblico. Come? Essenzialmente tagliando le spese, riducendo le prestazioni sociali (assistenziali e pensionistiche) e gli stipendi del settore pubblico.
È opinione diffusa che si tratti di qualcosa di necessario e inevitabile. Financial Times del 10 maggio: “Gran parte dell’Unione europea vive al di sopra dei suoi mezzi”, e “se gli europei non accettano misure di austerità adesso, probabilmente dovranno affrontare qualcosa di più scioccante: default del debito sovrano e collassi bancari”. Washington Post dello stesso giorno: “Quanto stiamo vedendo in Grecia è la spirale della morte del welfare state… Ogni nazione avanzata, inclusi gli Stati Uniti, deve affrontare la stessa prospettiva… I problemi sorgono da tutte le prestazioni assistenziali (indennità di disoccupazione, assistenza agli anziani, assicurazioni sanitarie) oggi garantite dagli Stati”. Il Sole 24 Ore del 15 maggio (articolo di Alberto Orioli): “Il welfare state del Vecchio continente si scopre vecchio come la sua patria. E insostenibile”. Va messo in gioco “il costoso sistema di protezione sociale pubblica (che ormai aveva incluso anche la gestione dei posti di lavoro statali) che ha incarnato per quasi due secoli l’anima stessa del modello economico continentale. Pubblici dipendenti, pensionati e pensionandi da antichi referenti di un’Europa politica costruita tra un perenne compromesso tra Stato e mercato e tra individuo e società si sfarinano [?] di fronte ai colpi della crisi finanziaria che rischia di diventare crisi di moneta e poi crisi di nazioni”.
Le stesse opinioni pubbliche, dando prova di una pazienza francamente eccessiva, sembrano pronte a inghiottire questi “sacrifici necessari” senza neppure chiedersi come mai due anni fa, quando gli Stati sborsavano migliaia di miliardi per salvare banche e società finanziarie, nessun Panebianco levasse il suo indice accusatore contro il “socialismo della spesa”.
Dalla teoria alla prassi. Dopo le misure draconiane adottate in Grecia (taglio del 16 per cento dei salari del settore pubblico), tagli della spesa sociale e degli stipendi pubblici vengono proposti ovunque: dalla Francia (congelamento per 3 anni) alla Germania (piano di austerity per 10 miliardi), dall’Irlanda al Portogallo, passando per Spagna (taglio degli stipendi del 7 per cento) e Italia (manovra da 25 miliardi). Senza dimenticare la Romania, che nell’euro deve ancora entrare ma è già la prima della classe, con un taglio dei salari pubblici del 25 per cento.
Il fatto stesso che queste misure siano adottate da molti Stati assieme dà ad esse una parvenza di inevitabilità e legittimità. Invece questo genere di misure, per dirla con Talleyrand, “è peggio di un delitto: è un errore”. Un errore che potrebbe costare davvero caro. Perché la sola vera arma letale in grado di abbattere il debito pubblico di un Paese – lo ha opportunamente ricordato Francesco Giavazzi – è la crescita economica: che comporta aumento delle entrate fiscali e minori spese per misure di assistenza (alle imprese e alle famiglie). Se non c’è crescita, se il Prodotto interno lordo anziché crescere diminuisce, è inevitabile che cresca il rapporto tra deficit e pil (perché si tratta, appunto, di un rapporto) – e quindi anche lo stock del debito. E se si adottano misure di restrizione della finanza pubblica per abbattere il deficit in una situazione in cui la crescita già non c’è, il risultato inevitabile sarà una recessione. Perché, in una situazione di disoccupazione già elevata per i licenziamenti nel settore privato, e quindi di minori consumi, si avrà una deflazione salariale anche sul lato del pubblico impiego. Immaginiamo ora che queste misure vengano adottate contemporaneamente da tutti i Paesi di una regione del mondo. In tal caso lo scenario sarà probabilmente depressivo: per il semplice motivo che il calo della domanda interna in ciascun Paese si tradurrà anche in un calo delle esportazioni reciproche tra questi Paesi.
In concreto: tagli contemporanei alla spesa pubblica come quelli ipotizzati, sono tali da infliggere un colpo formidabile a una domanda interna europea che è già boccheggiante. E quindi da stroncare i pochi sintomi di ripresa economica che qua e là cominciano ad avvertirsi. In questo senso, oggi stringere la cinghia significa anche stringere un cappio al collo della ripresa.
Non si tratta di una possibilità, ma di una certezza. Si può affermarlo, perché questo in Europa è già avvenuto: negli anni Trenta del secolo scorso. Anche allora la crisi allora conobbe due fasi. La prima iniziò con il crollo della Borsa di Wall Street dell’ottobre del 1929, cui seguì una ripresa che condusse nel 1930 i mercati azionari a recuperare il 60 per cento delle perdite. Poi fu la volta dell’Europa: dove l’avvitarsi delle economie nella spirale delle difficoltà economiche, con fallimenti bancari a catena (a partire da quello dell’austriaco Credit Anstalt) e politiche deflazionistiche controproducenti, diede inizio alla seconda e più drammatica gamba della crisi, innescando una depressione mondiale destinata a risolversi soltanto con la Seconda guerra mondiale.