Sulla legge bavaglio l'ex leader di An gioca l'ultima partita con Berlusconi, ma anche stavolta non arriva alla porta e confida in un intervento dell'arbitro
Ci sono stati grandi giocatori perennemente afflitti da questo difetto fatale. Finta, controfinta, dribbling, stupore e adrenalina sugli spalti. E poi – immancabilmente – portiere a terra ma goal sbagliato. Un giorno alla vigilia del Mundial del 1982, Enzo Bearzot fu apostrofato da una signora imbufalita perché non convocava Evaristo Beccalossi in Nazionale: “Lei è uno scimmione!”. Aveva ragione el vecio, invece, Evaristo in azzurro non concretizzava mai. Oppure, avete presente Ciccio Graziani? Cavallone fantastico, capace di sgroppate da un capo all’altro del campo con un sospiro di apnea. Poi, arrivato nell’area piccola, svirgolava: tiro a banana, fuori.
Se pensi a come Gianfranco Fini si è giocato la partita delle intercettazioni – almeno finora – l’immagine del campione afflitto dal difetto fatale della difficoltà di realizzare torna prepotentemente davanti agli occhi. E può sforzarsi quanto vuole Fabio Granata a dire che il giorno in cui è stato varato il testo hanno vinto i finiani; Silvio Berlusconi, può persino divertirsi a improvvisare la manfrina del “mi sono astenuto, perché sono stato messo in minoranza nel Pdl”. Quello che ormai è chiaro è che anche stavolta i giochi sembrano fatti senza che il leader di An sia riuscito a mettere in rete la palla della sua squadra repubblicana. È vero, i finiani hanno ottenuto – come spiega con la sua solita meticolosità Italo Bocchino “ben sette miglioramenti al testo”. Ma i nodi decisivi non sono stati toccati: i reati spia, l’impossibilità di intercettazione nei luoghi privati, il farraginoso obbligo di proroga a 75 giorni per usura, riciclaggio, estorsione e traffico illecito. Se il testo del ddl resta quello “blindato” dal premier, Fini rischia di fallire per l’ennesima volta la sua palla goal decisiva a un passo dalla rete.
Come un Mondiale. Se la guardi alla moviola, questa interminabile sfida come il Cavaliere lunga un quindicennio, può sembrare scadenzata come un Mondiale: ogni quattro anni una finale e una piccola impresa ribelle, ogni quattro anni un vincitore che butta la palla in porta (Berlusconi) e un contendente che torna nello spogliatoio tra gli applausi, ma battuto (Fini). Adesso, nel mondiale delle garanzie costituzionali, si giocano gli ultimi novanta minuti di partita, poi nulla di più. Fini provò a rompere l’egemonia di Forza Italia alle europee del 1999, con l’Elefante, ma nelle urne non riuscì a sfondare (forse perché non funzionava l’arruolamento in squadra di Mariotto Segni). Ci provò clamorosamente nel 2007, ai tempi del predellino: “Ho menato come un fabbro”, disse a microfoni aperti a Matrix. E parlava dei colpi assestati a Berlusconi. “Il Cavaliere sarà il candidato del centrodestra se Prodi cadesse?”, chiedeva Enrico Mentana. “No di certo”, rispondeva lui. Oppure: “La Cdl è un ectoplasma, non esiste più… Ognuno di noi avrà le mani libere su televisioni e giustizia”. Parole sconvolgenti, a ricordarle oggi. Come andò è noto. Il Fini delle “comiche finali” fece il partito con Berlusconi, senza mai riuscire a giocare la partita che aveva immaginato.
Il duello dell’Auditorium. Anche il duello di via della Conciliazione, a ripensarci oggi, sembra lontano: “Che fai, mi cacci?”. Non l’ha cacciato. Lo ha ghettizzato. Allora i finiani immaginavano e minacciavano un’altra strategia: gruppi separati, mani libere, lotta sulla giustizia, resistenza alla Lega. Oggi, nemmeno un mese dopo, di nuovo si ritrovano avviluppati e impotenti: il premier vara la Finanziaria lacrime e sangue, la Lega dà le carte, la giustizia viene stritolata.
La strategia di Bocchino. Se ascolti Italo Bocchino capisci che anche stavolta il derby tra i due Pdl è combattuto aspramente: “Questo per noi è solo un compromesso accettabile: molto meglio di quello che si era prospettato, non ancora quello che avremmo votato”. Ma l’ex vicecapogruppo, messo fuori rosa proprio per le sue posizioni eretiche, aggiunge: “Se il Pdl correggesse le tre cose che per noi non vanno saremmo molto contenti. Ma questa per noi non è una battaglia di vita o di morte”.
Partita finale. Anche stavolta il risultato finale è già acquisito? Non del tutto. In questi anni Fini si è rivelato uno stratega incerto nel disegno delle grandi strategie, ma un grandissimo tattico per la capacità di attraversare tempeste e frangenti difficili. In fondo la sua carriera da protagonista inizia con la sconfitta patita a Rimini per mano dei rautiani, prosegue con il fiancheggiamento non concluso al piccone di Cossiga, sembra subire una battuta di arresto fatale con la battaglia persa per il proporzionale nel 1993 e la bella sconfitta di Roma contro Rutelli.
Eppure, dopo tutte queste battute d’arresto Fini trova sempre il modo di tornare in campo. Stavolta, però, non ci sono mezze vie. Gli uomini più vicini ti spiegano che il presidente della Camera confida in un intervento dell’arbitro. Se il Quirinale esercita la sua moral suasion sui due punti a rischio di incostituzionalità (divieto di pubblicazione delle intercettazioni non coperte da segreto e meccanismo burocratico delle proroghe) Fini darà battaglia. Altrimenti si accontenterà di un’altra bella sconfitta.
Da il Fatto Quotidiano del 13 giugno