“Io non mi sento un cervello in fuga. Io mi sento piuttosto una persona che ha delle risorse che vengono sprecate”. Simone vive a Bogotá da 5 anni. Fa il fotoreporter e lavora per giornali svizzeri, brasiliani, colombiani. Dà lezioni di politica latinoamericana all’università e non ha nessuna intenzione di tornare in Italia. “Dopo anni passati a lavorare gratis e a elemosinare un lavoro in Italia, metto piede in Colombia e comincio a fare quello che so fare. Scrivere, fare foto. Pagato per questo. Sembra fantascienza in Italia. Da poco ho anche prodotto e diretto un documentario sui Falsos positivos, le migliaia di persone che vengono assassinate dall’esercito e dai paramilitari, in nome della lotta al narcotraffico. I nuovi desaparecidos. Il documentario sta girando il mondo. In Italia no, ovviamente”. Silvia lavora all’Istituto per il Commercio estero a Città del Messico.
“Dopo una laurea in Scienze della comunicazione, in Italia vai a fare la commessa da Trony. Io qui lavoro in un’istituzione governativa. Ma soprattutto è aumentata la mia qualità della vita”. Il tratto comune di una generazione di trentenni emigranti è sempre lo stesso: quando escono dall’Italia, professionalizzati, spesso laureati, emigrando in un paese qualsiasi, si “scontrano” con la meritocrazia, con la correttezza professionale. “Ho risposto a un annuncio pubblico su Internet – racconta Federico – cercavano un assistente alla produzione e diffusione di documentari, a Lussas, nella regione dell’Ardeche, in Francia. Sono stato contattato per un colloquio immediato a Parigi. Mi hanno preso subito solo perché ero quello che rispondeva meglio al profilo richiesto. Un semplice criterio meritocratico.
Io ho pensato, qua mi stanno prendendo in giro. Invece mi ritrovo a lavorare in uno dei centri più importanti d’Europa nella produzione di documentari, con una casa pagata e 400 euro di rimborso spese. Quello che ti sconcerta è che esci dall’Italia e smetti di essere un ragazzino e diventi all’improvviso un professionista. È il riconoscimento del tuo valore che ti colpisce come un pugno in faccia”. Sono sempre più i trentenni che emigrano all’estero, non importa molto dove, per provare a fare quello che in Italia non è possibile: il proprio lavoro. E non si tratta delle “teste di serie”, di quei pochi numeri uno che rappresentano l’eccellenza nei vari campi della scienza o della tecnologia e della medicina. Quelli sono eccezioni, sono rarità che fuggirebbero dall’Italia comunque, perché sono i migliori, e i migliori non restano nemmeno in Europa, ma accettano incarichi nelle università più prestigiose del mondo, negli Stati Uniti, ad esempio. Questa truppa di migranti invece è composta da trentenni della classe media. Professionalizzati ma “normali”. Partono perché sono stufi di dover fare gavette infinite, di dover riempire il curriculum di esperienze lavorative disparate, bizzarre e inutili, che servono solo a mantenere in piedi uno stile di vita esagerato, a pagare affitti e pieni di benzina, a pagare le pensioni ai sempre più anziani che popolano l’Italia.
“Sono una di quelle che è emigrata in nord Europa”, racconta Viola, giornalista, dalla Svezia. “In un mondo in cui non esistono più confini geografici o economici, non considero la mia cittadinanza elemento sufficiente per restare e non vedo lo scandalo nel ’piantare baracca e burattini’, quindi sono partita per Stoccolma. Mi definisco emigrante a tutti gli effetti, a volte un po’ per provocazione. Sono molto disillusa ma in fondo al cuore di alcuni di noi resta un po’ di attaccamento alla bandiera (quando ci sono i Mondiali di calcio). La prospettiva di una realizzazione professionale e, di conseguenza, personale è quello che cerco. Il mitico nord Europa è il luogo dove le capacità, la serietà, la voglia di imparare, ma soprattutto la correttezza vengono premiate. Il luogo in cui ai bambini di prima elementare viene insegnato che siamo tutti uguali, non davanti a chissà quale Dio ma di fronte all’insegnante e al mondo intero. Per tutte questo motivazioni sono qui e resterò qui, fino a prova contraria”.
Non c’è rancore nelle parole di molti dei nuovi emigranti. C’è però finalmente la certezza, la fiducia di poter trovare qualcosa da fare o il modo per realizzarsi. Questo tassello è l’altro lato della medaglia di un paese annichilito. Dove sono le forze attive del paese? Molte se ne vanno, rinunciano alla famiglia, la base della nostra società, al sogno di un lavoro sicuro, della macchina nuova, e partono, diventando subito produttivi altrove. È l’altra faccia di un paese che non ama i suoi figli. Non abbastanza da trattenerli sul suo territorio.
Federico Mastrogiovanni
Da Il Fatto Quotidiano del 17 dicembre 2009