Una sera del 1986 il giudice Lewis Powell della Corte Suprema degli Stati Uniti si incontrò col suo praticante, Cabel Chinnis. Powell doveva decidere se due adulti consenzienti potevano compiere atti omosessuali nel privato della loro camera da letto. Il suo voto sarebbe stato determinante: un sì o un no avrebbe reso criminali i tanti omosessuali che vivevano negli Stati nei quali la sodomia era ancora un reato.
L’esito di quella sentenza è noto: Powell votò con la maggioranza e la Corte dichiarò che “l’idea che gli omosessuali possano godere del diritto di fare sesso nelle proprie camere da letto è a dire poco risibile”.
Ma quello che pochi sanno è che Powell votò in quel modo dopo il suo colloquio con Chinnis, che era omosessuale. “Se conoscessi qualche omosessuale”, disse il giudice, “forse potrei decidere con maggiore serenità”. Chinnis decise di non parlare apertamente. Se l’avesse fatto, probabilmente Powell non avrebbe dato il suo voto e milioni di gay e lesbiche avrebbero potuto vivere liberamente le loro relazioni con vent’anni di anticipo.
In un Paese normale come gli Stati Uniti, la vicenda di Chinnis e Powell è entrata in profondità nella storia della comunità LGBT (lesbiche, gay, bisessuali, transgender/transessuali). Nel teatrino giudiziario di un Paese profondamente contraddittorio ma sempre pronto al dibattito su qualsiasi tema — nel 2003 la Corte Suprema dichiarerà il caso del 1986 “sbagliato quando fu deciso” — Chinnis impersona l’esitazione di chi non riesce a dichiararsi (a fare coming out, come si dice in gergo), mentre Powell rappresenta il cittadino che fa finta di non vedere (ironia della sorte, prima di Chinnis Powell aveva avuto altri cinque praticanti, tutti omosessuali).
Di gente così l’Italia è piena.
Alla prima categoria appartengono tutti gli omosessuali “repressi”, tutti coloro che considerano il Gay Pride solo una grande e buffa mascherata. Questi sono i Chinnis italiani. La seconda categoria comprende invece i ciechi e i sordi, gli ipocriti e i politici scriteriati, nonché quelli che si arrogano il diritto di riempirsi la bocca di parole come “famiglia” e “matrimonio” solo perché sono divorziati e di famiglie e matrimoni ne hanno più d’uno. Quelli come Giancarlo Gentilini, sindaco di fatto di Treviso, che vorrebbe la città “ripulita” dai culattoni.
Quelli come Umberto Bossi, che alla sola menzione dei diritti delle persone omosessuali esclamò: “E cosa vorrebbero? Il diritto di scambiarsi le mutande?” (come rileva ironicamente Gian Antonio Stella nel suo splendido Negri Froci Giudei & Co.). Quelli come Alessandra Mussolini, che nel suo altalenante pronunciarsi prima a favore e poi contro gli omosessuali, in una trasmissione televisiva, a qualcuno che le riferiva dell’esistenza di omosessuali genitori, chiedeva stupita: “Ma non è possibile! E come fanno?”. Quelli come Pierluigi Bersani, che a due giorni dal voto alle regionali e parlando delle coppie LGBT, dichiarava che “Per noi il matrimonio è una cosa e diciamo che altre forme di convivenza hanno regolazione diversa”. Inutile precisare che sono molti i voti che il PD si è giocato con quell’affermazione.
La mancata comprensione di un problema è il presupposto del suo perdurare in eterno, verrebbe da dire. Eppure, sull’omofobia c’è poco da osservare. In un rapporto della EU Agency for Fundamental Rights della settimana scorsa, relativo al 2009, in materia di orientamento sessuale l’Italia viene menzionata due volte: per il rifiuto di riconoscere il permesso di soggiorno al compagno di un cittadino italiano che vive permanentemente in Italia e per la stupefacente elisione dal dibattito parlamentare del ddl sull’omofobia nell’ottobre scorso.
Per non parlare poi dei pestaggi ed insulti che si verificano nel nostro Paese con una cadenza tale da far rabbrividire qualsiasi prefetto: tanto che nell’inerzia più totale del Parlamento, al capo della polizia Antonio Manganelli è venuta l’idea di una task force in materia di lotta all’omofobia. Di attacchi omofobici se ne contano a decine dall’inizio dell’anno, per non parlare di quelli che non vengono mai alla luce perché la vittima o le vittime sono talmente terrorizzate da non denunciare il fatto.
Quello che stupisce in Italia è il silenzio. Il silenzio del Parlamento: difficile dimenticare le parole di Cesare Salvi alla Commissione Giustizia destinata a discutere il ddl sui famigerati DiCo qualche anno fa’: “Né insabbiare, né accelerare”. E infatti stiamo ancora aspettando. Il silenzio dopo la bocciatura della legge anti-omofobia per i ridicoli rilievi di incostituzionalità e dopo la promessa del Ministro Carfagna di far ripartire subito l’iter legislativo per la sua approvazione. La proposta di legge, di cui è prima firmataria la democratica Paola Concia, giace ancora in Commissione Giustizia e intanto le aggressioni omofobiche continuano (l’ultima a Padova il 9 giugno scorso ai danni di una coppia di ragazzi che si teneva per mano e aveva “vestiti da comunisti”).
Il silenzio delle reazioni alle affermazioni agghiaccianti del giudice costituzionale Giuseppe Tesauro del 5 giugno sul fatto che le persone transessuali sarebbero “scherzi della natura” — in altri paesi le poltrone dei giudici saltano per molto meno (la frase è stata poi smentita: “L’espressione non si riferiva alla persona”, precisa il giudice, “ma al contrasto che il transessuale avverte prima dell’intervento”. Sarà. Ma non ci pare che i termini “dignità” e “scherzo” siano compatibili).
Il silenzio su quell’inciso abbastanza inquietante della sentenza della Corte costituzionale – la stessa di cui fa parte Tesauro – di due mesi fa, secondo il quale l’unione coniugale si distingue dall’unione omosessuale per la sua “(potenziale) capacità procreativa”. Come se tutte le coppie eterosessuali che si sposano lo facessero per fare figli o se l’intento o la capacità di procreare fossero caratteristiche intrinseche dell’istituto del matrimonio.
Non si può tacere di fronte ad affermazioni ed opinioni tanto gravi.
Ci spacciamo per un Paese normale. Facciamo di tutto per darci un tono. Ma non ci accorgiamo che ci sono classi di cittadini che vivono nel terrore perché guardano, desiderano, amano una persona del loro stesso sesso. O perché quando si guardano allo specchio vedono un’identità di genere che non è la propria. Tutte queste persone sono cittadini che “hanno pari dignità sociale e sono uguali [agli altri] di fronte alla legge”, come recita l’articolo 3 della nostra Costituzione.
Quella di Chinnis è una storia normale in un Paese normale: un Paese nel quale nel 2010 sei Stati riconoscono il matrimonio tra persone dello stesso sesso e 43 hanno leggi antiomofobia. Da noi, quella di Chinnis sarebbe una storia che nessuno avrebbe raccontato, chiusa nelle aule giudiziarie, nei giochi di potere, nelle cricche che fanno la morale ma non ne hanno.
Di tutto questo è forse anormale che le persone lesbiche, gay, bisessuali e transessuali decidano di averne abbastanza?
* Un ringraziamento va ad Andrea Tornese, neogiornalista, per l’utile contributo dato a questo post.