Il 2 aprile quattro funzionari della Digos hanno perquisito la mia abitazione e la mia automobile. Hanno sequestrato i miei due telefoni cellulari e tre computer (due non sono miei, ma della mia compagna). Il motivo: venti giorni prima avevo rivelato in esclusiva, sul Fatto Quotidiano, che a Trani c’era un’inchiesta sulle pressioni che Silvio Berlusconi esercitava sull’Agcom per chiudere Annozero. Non ho protestato. Non protesto neanche ora. Mi piacerebbe riavere telefoni e computer ma, a due mesi e mezzo di distanza, i miei strumenti di lavoro sono ancora in procura.
Il 15 maggio i carabinieri si presentano nella mia stanza d’albergo, a Perugia, per perquisirla. Quel giorno avevo pubblicato, sempre sul nostro Fatto Quotidiano, il verbale d’interrogatorio di Guido Bertolaso, che è indagato con l’accusa di corruzione. Non era un’esclusiva: il verbale era stato pubblicato anche da Roberta Catania, inviata di Libero che, nel corso della perquisizione, è stata persino fatta spogliare. Almeno non ci hanno sequestrato nulla. E anche in quell’occasione – nonostante io ritenga che sia esagerato far spogliare un professionista che ha soltanto pubblicato una notizia – non ho protestato. Non protesto neanche ora.
Lo farei altre cento volte. Pubblicherò notizie riservate tutte le volte che ne avrò la possibilità. E sempre a una sola condizione: chiedendomi fino a che limite, noi cronisti, possiamo e dobbiamo spingerci, quando decidiamo di (cercare e) pubblicare una notizia. Spero che potremo affrontare il tema in questo blog. Oggi mi limito a una prima riflessione: dopo anni di lavoro, e alla vigilia della “legge bavaglio”, continuo a rispondermi nello stesso identico modo: il limite è il nostro buon senso. Nessuna legge è necessaria se rispettiamo l’etica professionale. Nessuno può obbligarmi ad attendere l’esito delle indagini preliminari per pubblicare una notizia: non obbedirò mai a una legge simile finché avrò un luogo dove pubblicare ciò che ritengo necessario.
Violare il segreto istruttorio, e in teoria persino il segreto di Stato, per me resta un dovere – oltre che un piacere – se, e quando, la notizia è di reale interesse pubblico. Dimostrare – pubblicando intercettazioni e atti d’indagine – che Berlusconi premeva per chiudere Annozero era un mio dovere. Niente di più che il mio dovere. È il motivo per il quale guadagno il mio stipendio e cerco di conquistare la fiducia dei lettori: nessuno m’impedirà di farlo ancora. E per un motivo semplice: nessuno ha avuto la forza di smentire quelle notizie. Molti hanno avuto la forza di ignorarle. Ma questo è un altro argomento e non dipende da me. Devo pure registrare che da allora nessun collega s’è più avventurato a cercare notizie sull’inchiesta di Trani.
Ciò che non m’interessa, invece, è intrufolarmi nell’intimità degli indagati e degli intercettati. È vero che ho pubblicato – quella volta su l’Espresso – i nastri registrati da Patrizia d’Addario con Silvio Berlusconi. E lo farei ancora: aver dimostrato che un Presidente del Consiglio è così sprovveduto e superficiale da farsi registrare, da una donna pagata da altri, dentro la sua camera da letto, resta una questione di grande rilevanza politica.
Se i cronisti non avessero violato i segreti dell’indagine, se non avessero spiegato al mondo intero che Berlusconi è così sprovveduto, chi può assicurarci che una qualsiasi donna, registrandolo di nascosto, avrebbe potuto ricattarlo? Qualsiasi ricatto possibile, ai suoi danni, è stato smontato proprio dalla pubblicazione di quelle informazioni. Qualsiasi seria riflessione sulla sua ricattabilità, sulla sua inidoneità a guidare un governo e un Paese, però, è stata annegata dalla schiera dei giornali, dei telegiornali, dei radiogiornali che subiscono l’influenza del suo potere.
Il primo giornalista a intervistare, in tv, Patrizia d’Addario, era della redazione di Annozero. Non a caso, Berlusconi, ha ripetutamente provato a silenziare Michele Santoro e i suoi cronisti. E c’era quasi riuscito, finché le notizie, anche sul suo tentativo di censura, non sono state rese pubbliche. Qualsiasi seria riflessione sulla sua indole censoria e totalitaria, però, è stata annegata dalla solita schiera di giornali, telegiornali, radiogiornali che subiscono l’influenza del suo potere. Che ci perquisiscano pure, quindi, perché vuol dire che le notizie, quelle vere, nessuno è ancora in grado di fermarle: se ci perquisiscono, vuol dire che le abbiamo pubblicate.
La sfida non è con chi ci perquisisce. Anche se perquisizioni, richieste di risarcimenti milionari e minatori, cronisti indagati e intercettati per scoprirne le fonti e, in certi casi, persino pedinati e fotografati mentre parlano con i loro (presunti) informatori, si moltiplicano di giorno in giorno. Eppure la sfida non è, non può essere, con chi ci indaga. Non in questo momento. La sfida non è neanche con la “legge bavaglio” che non passerà mai se la maggioranza dei cronisti italiani decidesse di abolirla con i fatti. Qui e ora, la sfida, è con chi, quelle stesse notizie, pur avendo il dovere di diffonderle, tenta scientemente di frantumarle.