25 giugno. Oggi è sciopero. Volevo andare al mare con la mia torpedo blu, made in Pomigliano. Poi mi sono informato meglio, e mi hanno detto che la torpedo è diventata gialla. La fanno in Cina.
Due cifre, giusto per intenderci: nel 2009 nel mondo si sono prodotte circa 10 milioni di auto in meno che nel 2008.  -32% in Giappone, -34% negli USA, -18% in Italia e così via. E in Cina? Beh, siamo a +48%, 5 milioni di macchine in più.

Solo due anni fa era cinese una macchina ogni 8, oggi una ogni 4. I lavoratori cinesi lo sanno, e così scioperano fino a che il padrone non mette nero su bianco un aumento di stipendio del 24%. È successo alla Honda di Foshan, succederà ancora. Anche perché sul costo di produzione di una macchina il lavoro incide per assai meno del 10%.

E anche perché questa volta Hu Jintao e l’organo del suo partito l’hanno detto chiaro: è arrivato il momento che un pezzetto dell’enorme ricchezza creata dal miracolo cinese tocchi anche ai lavoratori. Nel Guangdong ad esempio in poco più di un anno il salario minimo da 650 yuan è passato a 950, +45%.

Non è questione di esser generosi, è questione di avere un progetto di politica economica per il paese. E la Cina un progetto ce l’ha sempre avuto. Ha sfruttato la globalizzazione per tornare da protagonista nel mercato mondiale dopo un secolo e mezzo di latitanza (una latitanza, è bene ricordarlo, imposta manu militari dall’occidente), ed oggi che è diventata la locomotiva dell’economia globale lancia la fase due: la costruzione di un prospero mercato interno. È anche per questo che oggi costruisce il 50% di auto in più di due anni fa, perché i suoi lavoratori cominciano a potersele permettere.

Dall’ultimo rapporto della UBS su salari e prezzi mondiali si evince che a Pechino il salario medio netto annuo è di 5.300 dollari. La casa automobilistica cinese Chery produce un’auto da 800 cc e 51 CV di potenza al costo di 4.000 dollari. Quando nel 1959 in Italia con lo stipendio di un anno finalmente riuscivi a portarti a casa una fiammante FIAT 500, è cominciato il boom. I conti tornano e il progetto va avanti.
Anche in Italia il progetto va avanti, basta dirsi chiaramente il progetto qual’è.

Perché se il progetto è quello di riguadagnare posizioni sul mercato mondiale grazie alla riduzione del costo del lavoro, allora diciamocelo, abbiamo scherzato, torniamo tutti a casa e amici come prima. Se invece il progetto è quello, mentre la nave affonda, di permettere a chi ha più forza di arraffare l’arraffabile, allora tutto torna. Nel 1983 il 77% del PIL andava ai salari e il 23 ai profitti. Oggi siamo 67 a 33. Cioè, rispetto a 30 anni fa, ogni lavoratore oggi devolve beneficamente ai padroni 6.000 euro in più ogni anno.

Questo è l’obolo che impedisce di ripartire, e non certo il contratto nazionale di lavoro contro il quale s’è scatenata l’ennesima guerra a Pomigliano.

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