“Ogni giorno, da cinque anni, vado nel mio ufficio di Corso Sempione, in attesa di conoscere su quale dei tanti progetti di fiction da me proposti posso e devo finalmente rimettermi all’opera”. Gilberto Squizzato, trent’anni in Rai come giornalista, autore e regista, nel ’95 crea nella sede di Milano un modello di produzione di fiction a basso costo che lo porta a ricevere diversi premi e riconoscimenti, sia in Italia che all’estero. Una bella soddisfazione, insufficiente però a evitare che la sua linea di produzione nel 2005 venga chiusa. “Da allora non ho più ricevuto alcun incarico di ideazione o realizzazione. Forse oggi, in tempi di vacche magre, con 200 milioni di passivo previsti dal bilancio Rai, quel modello low cost meriterebbe di essere recuperato, anche per mettere all’opera tanti nuovi giovani autori”.

Michele Santoro e Paolo Ruffini hanno vinto la causa che hanno fatto all’azienda per continuare a lavorare… E a lei com’è andata?

“Il Tribunale del lavoro a dicembre 2008 ha ordinato alla Rai di restituirmi al mio ruolo di autore e regista di docufiction e real movie fortemente ancorati all’attualità. Attendo da un anno e mezzo, con comprensibile impazienza, che sia applicata la sentenza”.

Se no?

“Dovrò tutelare la mia dignità professionale, come ha detto Ruffini, a cui il giudice ha dato ragione. Il presidente Garimberti, comunque, ha dichiarato che le sentenze del tribunale vanno sempre eseguite, anche quando non piacciono all’azienda”.

Agostino Saccà, quand’era direttore di Rai Fiction, ha accentrato su di sé il potere di promuovere e finanziare le nuove produzioni. E i real movie da lei diretti non sono più piaciuti…

“Forse costavano troppo poco, non so… O forse non era gradito che nascessero all’interno dell’azienda con l’apporto di troupe e mezzi Rai. Ma il problema è molto più ampio e non riguarda la mia persona: l’accentramento della fiction imposto da Saccà ha sottratto alle direzioni di ogni rete una parte consistente della loro autonomia editoriale. Mi pare che ora si voglia accentrare anche l’intrattenimento di tutte le reti sotto un’unica direzione. Ma un’azienda editoriale troppo accentrata non può che portare a un’omologazione del prodotto”.

L’ideazione e produzione dei programmi è sempre più affidata a società esterne. Che ne sarà della Rai?

“Se prevarrà questo orientamento, la tv pubblica rischia di ridursi a una semplice società finanziaria destinata a mettere in onda quasi soltanto programmi pensati e realizzati al suo esterno. Ma quel punto, per coerenza, bisognerebbe privatizzarla”.

Nel suo libro La tv che non c’è, come e perché riformare la Rai (Minimum Fax) lei però afferma che la televisione pubblica non può essere privatizzata.

“Come l’acqua, la Rai va considerata un bene comune, strategico e vitale. Quindi va riconsegnata ai cittadini, attraverso un Consiglio di amministrazione o un Comitato editoriale in cui la maggioranza sia espressa non da rappresentanti del sistema politico, ma della composita realtà del Paese: membri scelti dalle associazioni degli utenti, dal mondo del lavoro, della cultura, degli autori, dell’editoria, dell’arte e dello spettacolo. Solo una Rai svincolata dalla morsa dei partiti e da ogni interferenza del governo può garantire ai cittadini un’informazione autenticamente libera, autonoma e pluralista ”.

Il libro inizia con una dedica al “colore viola” e si conclude con la proposta di una legge di iniziativa popolare. Per riformare la tv pubblica si può solo partire dal basso?

“Sarebbe stupendo se fossero i partiti a fare un passo indietro. Ma nessuno di loro ha finora voluto praticare un reale disarmo bilaterale. Solo una forte mobilitazione dell’opinione pubblica potrà indurli a ritirarsi dal servizio pubblico”.

Il presidente Garimberti ha detto che “o si cambia o si muore”…

“È così. Ma chi voleva far morire la Rai non era forse la P2? È questo che intendiamo permettere?”.

Se non muore, la tv pubblica invecchia: per i giovani oggi è quasi impossibile essere assunti…

“Sono centinaia i giovani che lavorano ai programmi di rete, ma in larga maggioranza vengono assunti temporaneamente dalle società esterne che producono in appalto. Queste energie fresche e innovative devono invece diventare il nuovo nerbo editoriale del servizio pubblico, che altrimenti rischia di perdere contatto con la realtà e risultare marginale nel nuovo mondo multimediale. Al sindacato dei giornalisti Rai proporrei una formidabile prova di solidarietà dei “garantiti” verso i giovani disoccupati: indire un referendum tra i colleghi su una proposta di autoriduzione dello stipendio del 2% per i redattori, 3% per i capiredattori e 10% per i direttori. La cifra risparmiata andrebbe reinvestita in nuovi contratti regolari e stabili per giovani giornalisti”.

Lei scrive che l’attuale sistema di governance della Rai non consente di rimuovere un direttore di tg che gestisca l’informazione in modo scorretto. Mi viene in mente Augusto Minzolini. Sbaglio?

“Ho finito di scrivere il libro alcune settimane prima che Minzolini fosse nominato alla direzione del Tg1. Il problema non sono le singole persone, ma l’intero sistema Rai: come si potrà rimuovere un dirigente o un direttore che abbia disatteso i doveri del servizio pubblico se la sua nomina è di fonte politica? Anche per questo i meccanismi di scelta dei vertici aziendali devono essere sottratti una volta per tutte all’arbitrio della partitocrazia. Se poi ci mettiamo anche il conflitto di interessi…”.

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