La sua faccina, tridimensionale e rossastra. Polverosa, misteriosa e indefinita come i presunti volti sulla superficie di Marte. L’incontro con il secondo piccolo alieno della mia vita (il primo, altrimenti detto il Cobra per la sua curiosa abitudine a soffiare arricciando il naso quando dissente dall’autorità materna, oggi ha 22 mesi) avviene attraverso un’ecografia morfologica 3D in un reparto maternità luminoso, silenzioso e rasserenante dell’ospedale Luigi Sacco di Milano.
Appena rinnovato dal nuovo direttore, la dottoressa Irene Cetin, questo piccolo reparto fuori dal circuito dei bambinifici milanesi (Mangiagalli e Buzzi, per esempio) è un’isola di tranquillità in cui nascono solo una manciata di cuccioli al giorno e in cui mamme e ostetriche possono dialogare prima e dopo il parto senza l’affanno da grandi numeri. Certo, una gravidanza a rischio trova fortunatamente conforto nell’iper specializzazione della Mangiagalli, ma al Sacco sembra prendere forma quello che da anni si pontifica senza riuscire a concretizzarlo, causa anche tagli continui alla sanità pubblica: un parto a misura di mamma e di bambino.
O, come lo ha rilanciato la stessa Cetin, “un parto un Sacco bello”. Terrorizzata dal supermercato del travaglio, ho scoperto questa realtà milanese poco conosciuta andando in cerca di un ospedale il più possibile simile a quello di Forlì, il Morgagni Pierantoni, dove ha strillato per la prima volta il Cobra quasi due anni fa. Anche lì partorire non significa essere un numero da gestire nel modo più rapido e sbrigativo, seppur efficiente.
E allattare è un diritto di ogni madre, anche di quelle cesarizzate: un’ostetrica è sempre disponibile a ogni ora del giorno e della notte e schiacciare il bottone per chiamarne una non corrisponde alla violazione di qualche protocollo segreto secondo il quale meno chiedi aiuto, meglio è. Altre mamme hanno fatto lo stesso ragionamento e non è raro incontrare una vecchia amica che ha voluto avere il primo figlio in un ospedale di provincia, pur vivendo in città.