L’ultima in ordine di tempo è stata la Francia. Le esigenze di bilancio hanno assunto ormai la priorità massima e poco importa che a farne le spese sia il più irrinunciabile degli appuntamenti. La parola d’ordine è “austerity” e così, con l’obiettivo di “dare il buon esempio” (e di risparmiare circa 700 mila euro), Nicholas Sarkozy ha cancellato la tradizionale festa ai giardini dell’Eliseo del prossimo 14 luglio, anniversario della presa della Bastiglia. Una decisione che fa già discutere, come tante altre del resto. Le iniziative di sobrietà proliferano un po’ ovunque tra provvedimenti sostanziali e azioni semiserie. E i dibattiti si infiammano, svelando così un dramma tristemente noto: quello del deficit.
Prendete il caso di New York. Nella Grande Mela e dintorni è scattata l’ennesima offensiva dell’eterna guerra al tabacco. Fumarsi una sigaretta entro i confini dello Stato rischia di diventare un autentico lusso visto che per acquistare un pacchetto serviranno a breve circa 9 dollari e 20 (11 nella metropoli dove l’amministrazione conserva una sua discrezionalità delle imposte). Colpa di aumenti record nella tassazione (1,6 dollari a pacchetto più un bel verdone per ogni oncia di tabacco) capaci di scatenare micidiali proteste. Dal primo settembre, l’amministrazione imporrà i dovuti aumenti anche sulle sigarette vendute ai visitatori delle riserve dei nativi americani. Secondo il New York Times, un capo indiano che ha scelto di restare anonimo avrebbe già definito il provvedimento “un atto di guerra”. A questo punto verrebbe da sorridere ma è sufficiente guardare alle cifre per perdere ogni tentazione di ilarità: a febbraio lo Stato di New York ha previsto per il corrente anno fiscale un deficit di 8,2 miliardi di dollari, correggendo al rialzo (+750 milioni) le stime iniziali. Non siamo ancora ai livelli della martoriata California ma tanto basta, evidentemente, per dichiarare lo stato d’emergenza sulle “bionde”.
Le contese nazionali su Bastiglia e sigarette non sono però nulla rispetto alla clamorosa bufera che sta letteralmente travolgendo l’Australia. Con una decisione resa nota il mese scorso, il governo di Camberra ha avviato una riforma del sistema fiscale applicato all’industria mineraria. Niente più royalties, come accaduto fino ad’ora, ma una bella imposta del 40% sui profitti delle imprese del comparto. La cosiddetta Resource Super Profit Tax, che dovrebbe entrare in vigore dal 1° gennaio 2012, sta producendo uno scontro senza precedenti. Per i critici l’imposta rischia di provocare la fuga delle compagnie minerarie e la conseguente distruzione dell’industria locale. Le compagnie sperano in un compromesso ma, di fronte alla necessità di cassa (si stima che la tassa garantirà da sola un gettito annuale di 9 miliardi di dollari), il governo non può permettersi di arretrare più di tanto. Già preoccupata dalla possibile futura contrazione della domanda di materie prime da parte di Cina e India, l’industria mineraria globale si pone ora la fatidica domanda: cosa accadrebbe se altri Paesi dovessero seguire l’esempio dell’Australia? Un quesito diffuso, nella forma, almeno quanto il principio che lo ispira. Secondo il Fmi, gli interventi post crisi nel sistema finanziario sono costati alle casse pubbliche del globo 13.600 miliardi di dollari. Una cifra micidiale che dovrà essere recuperata a forza di lacrime, sangue e un bel po’ di creatività. Magnati delle miniere e fumatori schiumano rabbia. Molte altre categorie, statene certi, seguiranno a breve.