Se vivessimo in un paese normale, se questo fosse un processo qualunque, i giudici della seconda corte d’Appello di Palermo avrebbero già emesso la sentenza. Lo avrebbero già fatto giovedì, quando sono entrati in camera di consiglio, o al massimo venerdì. Un solo imputato, Marcello Dell’Utri. Poche le nuove prove ammesse dal collegio che ha deciso di non sentire Massimo Ciancimino, di non acquisire le intercettazioni tra il senatore azzurro e la sorella di Vito Roberto Palazzolo (il cassiere di Totò Riina e Bernardo Provenzano) latitante in Sudafrica, né quelle tra Dell’Utri e una serie di uomini della ‘ndrangheta.
Insomma il lavoro delle toghe è in teoria semplice. I giudici, di fatto, devono solo esaminare le motivazioni della sentenza che in primo grado ha condannato l’ideatore di Forza Italia a 9 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. E stabilire se sono giuste o sbagliate. Cosa che dovrebbero aver capito da tempo.
Ma quello di cui stiamo aspettando la fine non è un processo qualunque. E l’Italia non è un paese normale. Perché Dell’Utri è stato condannato anche per essere stato il punto di congiunzione tra Cosa Nostra e “ il mondo imprenditoriale e finanziario milanese”. Cioè la Fininvest del premier Silvio Berlusconi. E per poi aver fatto da tramite tra i clan e la politica.
E qui sta il problema. Perché giocoforza un’eventuale conferma della condanna potrebbe avere degli effetti dirompenti sulla sempre più fragile stabilità politica del governo.
Dopo aver visto, nel 2005, Cesare Previti essere definitivamente condannato a Milano per corruzione giudiziaria, adesso il presidente del Consiglio è alle prese con Dell’Utri e i suoi molti amici mafiosi. Un po’ troppo per non pensare che, in caso di un verdetto sfavorevole, pure in Italia non accada qualcosa. I casi Bertolaso, Scajola, Lunardi, Verdini, e Brancher stanno minando la fiducia nell’esecutivo anche tra gli elettori del centro-destra. In molti, anche a causa della crisi economica e dell’imperversare delle mazzette, cominciano a sospettare che la vera cricca sia lì. Insediata a Palazzo Chigi. E adesso, se la condanna di Dell’Utri venisse confermata, persino i falchi berlusconiani, come Giuliano Ferrara, scrivono: “Forse viene giù tutto”.
Anche perchè, durante le indagini che hanno portato nel ’97 al processo di primo grado, sono state raccolte testimonianze e documenti su 200 milioni di lire all’anno che la Fininvest ha versato per tre lustri alla mafia come “regalo”. I magistrati hanno poi in parte verificato i conti delle holding che controllano il gruppo Berlusconi. Una ventina di società in cui, secondo l’accusa, sono confluiti 113 miliardi di lire di oscura provenienza. Per questo filone è stato indagato anche il Cavaliere, prima che la sua posizione venisse archiviata (su richiesta della stessa Procura) per scadenza dei termini e mancanza di elementi sufficienti per sostenere un processo.
Il premier durante l’inchiesta ha avuto la possibilità di svelare il mistero sulle origini del suo patrimonio. Ma, dopo aver preteso la trasferta dei magistrati a palazzo Chigi, nel 2002 si è avvalso della facoltà di non rispondere. Una circostanza definita dal pm Antonio Ingroia “ un’occasione mancata per il chiarimento di alcuni buchi neri, come quello dell’assunzione e dell’allontanamento di Mangano (il boss di Cosa nostra travestito da Fattore ad Arcore, ndr), o dei bilanci delle holding”.
Dunque i rapporti mafiosi di Dell’Utri, definiti “ certi” dai giudici di primo grado, sono stati utili a Berlusconi. E sono proseguiti sia durante il periodo della creazione di Forza Italia, durante il quale il senatore continuava a frequentare Mangano, sia negli anni successivi, quando una serie di uomini di Bernardo Provenzano sono stati intercettati mentre si organizzavano per voltarlo (1998) in base a quello che, secondo loro, sarebbe stato un preciso accordo.
Ma non basta. La sentenza che sta per essere emessa – forse già lunedì in mattinata – avrà anche un peso enorme sul destino delle indagini siciliane e di Firenze sulla trattativa Stato-mafia e sulle bombe del ’92-’93. Perché, come ha detto il Pg Nino Gatto:” Questa vicenda si inserisce nella stagione delle stragi”.
Così, che questo non sia un processo qualunque, a Palermo lo si è capito anche da quanto è successo sabato.
Il Consiglio dell’Ordine degli avvocati, che non si era mai mosso per i magistrati minacciati di morte o insultati sulle tv e i giornali dalla politica, è intervenuto per difendere il collegio dalla cronaca (doverosa) dei giornali. Anzi dalla cronaca de Il Fatto Quotidiano. I legali palermitani, sempre più preoccupati per l’oscuro omicidio del loro collega Enzo Fragalà – l’ex senatore di An ammazzato a bastonate il 26 febbraio (una vicenda che secondo molti osservatori sarebbe collegata alla trattativa Stato-Mafia) – hanno emesso un comunicato per esprimere solidarietà al presidente del collegio Claudio Dall’Acqua e ai giudici a latere Salvatore Barresi e Sergio La Commare, contro il “diffuso abuso dei media volto ad ingenerare dubbi nell’opinione pubblica circa la serenità di indirizzo degli organi giudiziari”.
Il “casus belli” è stato un puntuale articolo di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza che raccontava come uno dei figli del presidente Dall’Acqua fosse stato nominato segretario generale del Comune di Palermo per chiamata diretta del sindaco Diego Cammarata, un politico del Pdl da sempre legato a doppio filo a Gianfranco Miccichè, storico proconsole di Dell’Utri in Sicilia. Un pezzo in cui si raccontava anche dei legami con Cosa Nostra di una holding di cui fa parte la società per cui lavorava un altro figlio dello stesso giudice. Circostanze mai smentite da Dall’Acqua che però, durante la penultima udienza del processo, in maniera del tutto irrituale, ha detto che la Corte non avrebbe ceduto alla “ pressioni mediatiche”.
Così il clima è diventato ancora più teso. E alcuni magistrati hanno chiesto al presidente dell’Anm di Palermo, Nino Di Matteo, di convocare una seduta di Giunta. Una riunione quasi drammatica in cui il sindacato delle toghe si è spaccato sull’atteggiamento da tenere. Alla fine, infatti, l’Anm invece che chiedere spiegazioni a Dall’Acqua, ha approvato, con quattro voti a favore e tre conto, un documento di solidarietà.
Insomma il caso Dell’Utri provoca nervosismo anche tra le toghe. Tanto che, oltre a Di Matteo, si sono opposti alla mozione il segretario dell’associazione Vittorio Teresi e la pm Alessia Sinatra. Mentre l’ago della bilancia a favore del collegio e contro i giornalisti è stato rappresentato da Ignazio De Francisci, un magistrato che si è sempre descritto come l’allievo prediletto di Giovanni Falcone.
Il pezzo però riportava solo notizie vere e verificate. Come hanno ricordato l’Ordine dei giornalisti, l’Assostampa e l’Unione cronisti della Sicilia. Per loro a Palermo c’è gente che “vuole mettere il bavaglio ancora prima dell’approvazione della legge sulle intercettazioni”. Visto che “i giornalisti non sferrano attacchi contro le corti giudicanti, ma raccontano fatti che non sono stati smentiti da alcuno”.
Ma quando ci sono di mezzo il premier e i suoi amici in troppi, anche tra le toghe, sembrano dimenticarselo.
Peter Gomez e Antonella Mascali
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