Cinema

“Ho fatto un film sugli omosessuali
(ma io non lo sono)”

L’italo-danese Nicolo Donato parla di "Brotherhood", il film vincitore del Festival di Roma nelle sale tra pochi giorni: “Mi fa orrore l’odio per il diverso”

di RQuotidiano

“Io non sono gay. Dunque?”. Nicolo Donato, italo-danese di 35 anni, ha la voce di una persona serena. E lo è, alla faccia delle tematiche del suo film d’esordio, che di conciliante ha solo il titolo. Broderskab in danese significa “fratellanza” ma anche “confraternita”, un’ambiguità giocata alla perfezione: fratelli di setta, fratelli di sangue, “omo-fratelli” in amore. E molti coltelli. Per farla breve, due giovani neonazi di Copenaghen dal cervello non ancora in tilt da fanatismo scoprono di amarsi. Imperdonabile. E agghiacciante, come ricorda la cronaca quasi quotidiana dall’alto al basso della Penisola, o d’Europa, o dal mondo. Aggressioni, ferimenti, omicidi per un’unica colpa da espiare: l’omosessualità.  Inutile girarci intorno, il problema – gravissimo – continua ad esistere. La pellicola punge sul tema con un rigore e una determinazione da brividi. Eppure, si diceva, chi l’ha girato soffre di atteggiamento serafico. Quasi zen, mentre dichiara la propria eterosessualità, facendo capire (con sintesi intelligente) che si può ben mostrare l’amore gay senza esserlo. “Bisogna essere neonazisti per riprodurre fedelmente quegli ambienti?”. Come dargli torto. Sbagliata è la diffusa presunzione che la cine-regola valida per tutto faccia eccezione quando la materia è “gay”. “Di fatto – spiega il regista/fotografo – ad avermi condotto sull’impervio sentiero di Broderskab è stata la curiosità, generata nel mondo della fotografia di moda in cui gravito da anni”.  La risposta si è dunque tradotta nella pellicola che il 2 luglio esce nelle sale italiane con il marchio Lucky Red e il titolo in inglese Brotherhood, dopo aver trionfato lo scorso ottobre al 4° Festival di Roma, guadagnandosi il Marc’Aurelio d’Oro della giuria come miglior film. I consensi, allora, arrivarono da più parti, razze, sessi, lingue e culture, a testimonianza di un lavoro che ha colpito nel segno. D’altra parte il messaggio alla base va ben oltre l’omofobia, “il male assoluto risiede nella volontà di annientamento del diverso”, dice Donato. “In quest’ottica è indifferente essere o meno gay. Basta essere islamici o neri o storti per essere discriminati. E sono solo esempi, ovviamente. In Brotherhood si racconta una storia di due ‘totalità’, nell’amore e nell’intolleranza”. Un tema universale a discapito di chi l’ha superficialmente identificato come “il film nazi-gay”.

Protagonisti del vietato amor fou sono Lars (Thure Lindhardt) e Jimmy (David Dencik), il primo veterano e il secondo neofita di una setta neonazista nella Danimarca dei nostri giorni. Inizialmente ostacolata dai due, specie dallo svasticato Jimmy, la relazione amorosa ha il sopravvento sui dettami omofobici del gruppo di appartenenza. Ma il tradimento porta le sue conseguenze, anche fatali. “La storia è totalmente finzionale”, spiega il regista in un inglese dal forte accento nordico, indice di osmosi con i danesi già dalla tenera età. “L’ispirazione e l’interesse per il tema arrivano dal documentario tedesco Men Heroes and Gay Nazis (2005) del cineasta ‘cult’ Rosa von Praunheim, in cui si testimonia la discussa omosessualità di Hitler. Questa però è solo la base di partenza perché la ricerca preparatoria per il film – durata un anno – si è nutrita di diversi materiali video. Li abbiamo attinti da YouTube e sono stati la fonte principale per gli attori nell’apprendimento di linguaggio, gesti e codici comunicativi del movimento neonazista. E soprattutto della loro violenza senza esclusione di colpi”.

Ma oggi si può parlare dell’omofobia in Danimarca come una piaga in espansione? “Più che l’omofobia in sé – spiega il cineasta – stanno emergendo diverse forme di intolleranza proporzionali alla crescente diffusione di aggregazioni di ispirazione neonazista. Il problema, dunque, non colpisce esclusivamente gli omosessuali ma è un’espressione di odio della diversità in senso lato. In altre parole, vero e proprio razzismo coerente ai proclami del nazismo. Quanto all’odio per i gay nello specifico, ho rilevato che seppur la Danimarca sia un Paese ‘evoluto’ dal punto di vista dell’integrazione socio-civile, non è raro trovare individui anche fuori dai gruppi estremisti che detestano l’omosessualità. Un nonsense pericoloso. Per questo ritengo sia sempre importante parlarne, scriverne, farne dei film. Spero che Brotherhood aiuti in questo senso”.

La lavorazione del film è durata quattro anni complessivamente, di cui sei mesi di riprese in giro per la Danimarca. Con una location, in particolare, che Donato ricorda ancora con emozione. “Le scene dei pestaggi notturni le abbiamo girate in luoghi realmente frequentati dai naziskin, alla periferia di Copenaghen. Abbiamo avuto paura, lo confesso. Se ci avessero trovato probabilmente ci avrebbero aggrediti. Siamo stati silenziosi, nascosti proprio come l’amore tra Lars e Jimmy”. Inutile chiedere al regista il motivo di mettere se stesso e il cast a rischio: “Se si vuole fare una cosa bisogna farla bene, essere credibili e autentici, altrimenti meglio desistere”.

Pignolo e perfezionista come solo i fotografi sanno essere, ha messo a punto il progetto di Brotherhood attingendo in partenza dalle proprie tasche. “Abbiamo iniziato a produrre con i nostri soldi, una follia. I finanziamnti sembravano una chimera ma poi è arrivato il produttore Per Holst della Asta Film, che ha convinto altri coproduttori, incluso il l’Istituto Danese di Cinematografia”. Nicolo Donato ha studiato fotografia e musica, e il suo apprendistato con il cinema è nato tra i fornelli. “Mi sono intrufolato alla Zentropa di Lars von Trier servendo il caffè e lavorando in cucina”, ricorda. “Avevo 28 anni ed ero il perfetto infiltrato votato all’apprendimento. Nel mio caso un fotografo di moda che voleva assorbire il più possibile i segreti dell’arte cinematografica”. Di padre siciliano e madre italo-danese. Nicolo è un italiano per tre quarti, eppure non si esprime più nella nostra lingua. “Fino ai 5 anni abbiamo vissuto a Lodi.  Poi i miei si sono separati e con la mamma mi sono trasferito in Danimarca. Per essere accettato dai bambini danesi dovevo imparare velocemente la lingua”. Detto fatto, mentre l’italiano diventava patrimonio dell’oblio. Attraverso la frequentazione degli ambienti “fashion”, Donato si è circondato di amicizie omosessuali, dai quali ha tratto i dettagli comportamentali. “Mi è naturale parlare di loro, del loro modo di vivere l’amore. Che poi non è diverso dal mondo etero, con l’unica differenza che gli omosessuali hanno versato il sangue – e tuttora devono lottare in certi contesti – per farsi accettare”. Oggi Nicolo sta lavorando al suo prossimo progetto di cui rivela unicamente “è un dramma sulla depressione e sarà girato in Danimarca”. Amletico, verrebbe da dire.

Anna Maria Pasetti

Da Il Fatto Quotidiano del 24 giugno 2010

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