PALERMO – Lo spettacolo indecente dei telegiornali che fanno a gara per nascondere la parola ‘’condanna’’, per trasmettere gli applausi che hanno chiuso la conferenza stampa di Marcello Dell’Utri e per amplificare i cori di gioia del centro destra che festeggia il “successo politico del verdetto’’ nasconde il dato principale di questa sentenza: oggi i giudici di Palermo hanno condannato per mafia il braccio destro di Silvio Berlusconi, per fatti compiuti fino al 1992. Un parlamentare che continua a sedere in Senato, si fa vanto di scegliere ministri e di avere suggerito il silenzio al premier in occasione della deposizione in aula nel suo dibattimento. Il maxiprocesso a Cosa Nostra costituì nel 1987 il crollo dell’impunità dei mafiosi, oggi c’è da augurarsi che, a differenza di quanto accaduto con Andreotti, questo verdetto incrini il mito dell’impunibilitaà dei potenti che hanno trescato con la mafia. Carcere o meno, prescrizione o no, dimissioni reclamate ma non concesse, Dell’Utri è stato condannato a sette anni di reclusione. La politica non può ignorare questo dato, banale ma fermo, nella sua inchiodante semplicitaà.
Se la prescrizione ha salvato Andreotti da una riflessione collettiva del Paese su un sette volte presidente del Consiglio che ha incontrato piu’ d’una volta il boss Stefano Bontade, questa volta nessuno può ignorare che per oltre 20 anni Silvio Berlusconi eè andato a braccetto con un “amico degli amici’’ che ne ha accompagnato la scalata imprenditoriale, quella televisiva e poi quella politica. E che fino al 1992 trescava con Cosa Nostra. Se i giudici non devono scrivere la storia, e con questa sentenza non l’hanno scritta, hanno però offerto uno straordinario input per aprire una riflessione sul processo di mafiosizzazione di questo Paese, in cui il fondatore di Forza Italia, fino al ’92, e’ stato l’uomo della mafia a Milano. Senza se e senza ma.